XXVII Domenica del Tempo ordinario - Anno A (...)
«Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. (...) Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” (...)
La parabola è insieme cupa e trasparente: la vigna è Israele, il mondo, sono io. Vigna che produce uva selvatica, in Isaia; una vendemmia di sangue, in Matteo. Io sono vigna e delusione di Dio. La parabola è dura, e corre verso un epilogo sanguinoso, già evidente nelle prime parole dei vignaioli, insensate e brutali: “ Costui è l’erede, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!” Ma è anche una fessura sul cuore di Dio: Gesù amava le vigne, come già i profeti, lo si capisce fin dalle prime battute: un uomo, con grande cura, piantò, circondò, scavò, costruì. Gesù osserva l’uomo dei campi, il nostro Dio contadino: lo vede mentre guarda la sua vigna con gli occhi dell’innamorato e la circonda di cure. Poi i due profeti intonano il lamento dell’amore deluso: “il custode si è fatto predatore” ( Laudato si’), ma al tempo stesso raccontano la passione indomita del Dio delle vigne, che non si arrende, che non è mai a corto di meraviglie, che per tre volte, dopo ogni delusione, fa ripartire il suo assedio al cuore, con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio figlio. Che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto? Parole di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La risposta dei capi è tragica: continuare nella stessa logica, uccidere, eliminare gli omicidi, mettere in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, ancora sangue. Ma non succederà così. Questo non è il volto, ma la maschera di Dio. La parabola non si conclude nel disamore o nella vendetta, ma su di una fiducia immotivata, unilaterale, asimmetrica perché tra Dio e l’uomo le sconfitte servono solo a far risaltare di più l’amore. La vigna di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. E allora inizierà da capo la conta, e il rischio, della speranza. Così è il nostro Dio: in Lui il lamento non prevale mai sul futuro. Un popolo c’è, un uomo c’è, di certo sta nascendo, forse è già all’opera, chi sa farla fruttificare. Ci sono, stanno sorgendo, in mille piccole vigne segrete, dei coltivatori bravi che custodiscono la vigna anziché depredarla, che mettono il proprio io a servizio dell’umanità, anziché gli altri a servizio della propria vita. Sono i custodi del nostro futuro. Sanno produrre quei frutti buoni che Isaia elenca: aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue. Il profeta sogna una storia che non sia guerra di possessi e battaglia di potere, ma sia vendemmia di giustizia e pace, il volto dei figli di Dio non più umiliato. Il Regno comincia con questi acini di Dio, come piccoli grappoli di Dio fra noi.
(Letture: Isaia 5,1-7; Salmo 79; Filippesi 4,6-9; Matteo 21,33-43)