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«Nulla anteporre all’amore…, tutto sia comune a tutti…, chiunque tu sia…, ascolta… e arriverai, se desideri essere felice». Sono solo alcuni passaggi di un testo che ha 1.700 anni di storia e che sotto l’aspetto valoriale – l’attenzione al dettaglio, l’accoglienza, il senso della misura, il valore della discrezione, la prudenza, l’umiltà, la dignità del lavoro – può mettere d’accordo chi, in nome dell’Europa, sa convergere senza soffocare le diversità, come in una grande orchestra. È la Regola di san Benedetto, uomo che profeticamente anticipò con saggezza e lungimiranza quanto di buono e di bello in Europa siamo stati capaci di mettere al centro del dibattito sociale, culturale, politico ed economico. Mentre la società che aveva intorno era ancora basata sulla disparità sociale, politica ed economica, eliminò la differenza tra schiavi e liberi e il divario culturale tra i membri della sua comunità: infatti tutti potevano avere accesso alla cultura, alla lettura, tutti con diritto di parola, a partire dal più “piccolo”, non di età anagrafica, ma di età monastica.
Sembra quasi assurdo dover ribadire dopo 1.700 anni, oggi nel 2025, che tutto questo non è scontato, che forse ancora non ci è tutto del tutto chiaro, che il tempo passa, che la storia si ripete, e che non è mai scontato che ne abbiamo fatto tesoro e che ci abbiamo capito qualcosa, che è così importante a volte, manifestare, come una nuova epifania, cosa non siamo disposti a rinunciare come uomini e donne di questo tempo.
«Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà», basterebbero queste tre definizioni con le quali Paolo VI iniziò la lettera apostolica Pacis Nuntius, il giorno della proclamazione di san Benedetto come patrono d’Europa nel 1964, per affermare quanto siano profonde e dimenticate le radici di quanto oggi abbiamo necessità di riaffermare. Essere messaggeri di pace non è forse la grande responsabilità che ciascuno di noi oggi ha, lì dove è chiamato a vivere, a lavorare, a pensare, studiare, gioire, camminare, sostare? Essere messaggeri di pace, stiamo sperimentando essere qualcosa di non acquisito una volta per sempre, ma qualcosa che va costantemente rinnovato, secondo quanto la storia ci sta consegnando. «Realizzatore di unione», perché l’unità non è un dato di fatto, ma la si costruisce, e tutti abbiamo la responsabilità del nostro tassello, l’unità rappresentata dalle 12 stelle sulla bandiera europea, stelle che hanno ribaltato la loro posizione e che dal cielo sono scese in terra. «Maestro di civiltà», perché se oggi possiamo ancora sfogliare Platone, Aristotele, Seneca, e perché qualcuno nel suo scrittorium, ha cominciato a copiare e a conservare.
Ed oggi? Quale può essere il mio contributo a a questa riflessione, a questo momento storico? Questa è la domanda che mi ha interrogato profondamente e alla quale forse è prematuro trovare una risposta definita e definibile, ma quello che sento di poter offrire è forse un criterio, che da sempre ha caratterizzato la vita monastica, il criterio profetico della comunità, del senso comune, che non è privato e non è pubblico, come direbbe la teologa Stella Morra. Il criterio del comune come luogo in cui privato e pubblico, si incontrano e negoziano, contrattano, come in una grande piazza, luogo di movimento, di percorsi, che abilita al riconoscimento dell’altro, come altro, di equilibrio e misura tra il particolare e l’universale. Nel comune l’ascolto genera il dialogo, la riflessione, il pensiero critico, affinché si creino ponti e non muri o fili spinati, affinché l’altro possa essere riconosciuto come fratello e non nemico, perché non mi sta togliendo niente, anzi è una opportunità da convocare, nel senso etimologico della parola, “vocare con”, chiamare insieme, perché il comune, la comunità non ha confini rigidi, ma flessibili, così come ogni monastero ha la sua forestiera, in cui ospitare il pellegrino «che non mancano mai» come dice Benedetto.
Monaca del monastero benedettino di Sant’Anna a Bastia Umbra
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