lunedì 11 novembre 2024
Il ricercatore commenta il rapporto Censis su "Italiani, fede e Chiesa": c'è diffidenza verso l'esperienza comunitaria. Più che la parabola del buon samaritano è emblematica quella dei talenti
La chiesa milanese di San Cristoforo

La chiesa milanese di San Cristoforo - Fotogramma

COMMENTA E CONDIVIDI

L’Italia resta un Paese assolutamente cattolico, gli insegnamenti di Gesù sono ancora un punto di riferimento fondamentale mentre c’è diffidenza nei confronti della Chiesa, ritenuta responsabile di emarginare i laici di valore. La fotografia che emerge dalla ricerca Censis “Italiani, fede e Chiesa” è quella di un Paese la cui cultura è fortemente intrisa di simboli religiosi ma che vive la fede in modo sempre più individualistico. «C’è diffidenza nei confronti dell’esperienza comunitaria – spiega Giulio De Rita, il ricercatore del Censis che ha seguito l’indagine – si registra una dimensione sempre più personalistica della fede, che riguarda soprattutto i cattolici non praticanti cui piace vivere la vita interiore, spirituale, da soli, al limite condividendola con la famiglia o gli amici più stretti».

Si diceva della sfiducia verso la Chiesa cattolica, soprattutto nella sua dimensione comunitaria.
È un sentimento abbastanza diffuso. La Chiesa viene vista come un po’ troppo clericale, quindi non in grado di valorizzare le risorse di valore che avrebbe al suo interno.
Si guarda con meno fiducia anche ai preti?
In declino è soprattutto la figura del sacerdote clericale, quello che non sa ascoltare i cambiamenti che avvengono fuori dalla Chiesa.

Giulio De Rita

Giulio De Rita - Imagoeconomica

Possiamo dire che il sacerdote è in calo come figura di riferimento, ma forse meno di quanto ci si potesse aspettare?Diciamo che la vita ecclesiale vissuta nella dimensione della parrocchia, comunitaria non è più così attraente. Bisognerebbe “uscire”, come dice continuamente il Papa, non stare in sagrestia a coccolare le ultime pecorelle rimaste ma andare a cercare quelle che si sono smarrite. La cosa paradossale è che gli italiani ritengono la parrocchia un luogo accogliente, il sacerdote una persona con cui ti puoi confrontare, ma non li vedono amalgamati nella società. La Chiesa in uscita non è ancora cominciata.
Però non viene considerata un’istituzione superata.
La maggior parte degli italiani le riconosce una sua trascendenza e quindi la capacità di attraversare i secoli. Quando ero ragazzino c'era una un'ideologia contraria al cattolicesimo, adesso non c’è più.
Ma forse il venir meno del rifiuto a muso duro si è tradotto in indifferenza.
L’effetto è appunto il soggettivismo, l'individualismo, il pensare soltanto a sé stessi. Tempo fa abbiamo realizzato un’indagine proprio sull’indifferenza da cui è emerso come l’unico peccato ancora sentito dagli italiani sia quello di omissione, cioè l’aver trascurato i propri talenti. La Chiesa orizzontale, che chiede di essere buoni col prossimo, alla fine non risponde all'esigenza profonda dell'uomo moderno che si domanda: “ma io nella mia vita che cosa faccio? Devo far fruttare le mie potenzialità”. Non significa soltanto fare del bene ma anche realizzarsi come persone. Bisognerebbe puntare più sulla parabola dei talenti che su quella del buon samaritano.
Il cristianesimo è la fede in Gesù, che continua ad essere un riferimento fondamentale per la vita degli italiani.
Sì, poi bisognerebbe sapere cosa significa, perché Gesù illumina ciascuno in modo differente e quindi riesce un po’ difficile incasellarlo in categorie. Però certamente sulla carta è il punto di riferimento trascendente per la maggior parte degli italiani. E dove c'è qualcuno che crede in Gesù, lì è Chiesa, lì è l'istituzione che però non riesce ad abbracciare tutto quell’oltre 70% di persone che si definiscono cattoliche.
C'è un dato in questa ricerca che l’ha sorpresa?
Direi la pervasività del sentimento cattolico e poi la risposta alla domanda, che non era mai stata fatta, sulla vita dopo la morte.
Il 58% degli italiani crede che esista, percentuale che sale all’87,7% tra i praticanti. E il 61,7% ritiene che la vita dopo la morte sarà diversa tra chi ha vissuto bene e chi ha vissuto male.
Sì, però a proposito dell’ultimo dato questa consapevolezza non orienta realmente la vita. Non si crede più nel giudizio finale. Si potrebbe spiegare questo atteggiamento con il fatto che il cattolicesimo è la religione della misericordia, che Dio perdona tutto, basta anche pentirsi un attimo prima di morire. Io però penso che alla base ci sia qualcosa di più profondo: non si intende più il peccato come qualcosa che ha a che fare con Dio, da cui siamo liberati grazie al suo perdono. Così viviamo con i sensi di colpa, che nascono dall’essere stati imperfetti, dal non aver corrisposto a quella che volevamo fosse l’immagine di noi stessi. Si potrebbe dire: non credo nel giudizio perché credo nella misericordia di Dio. In realtà non si crede nel giudizio perché ci siamo impossessati del peccato e non ce ne liberiamo più.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI