I segni dell'attentato del 2016 nella chiesetta di San Pietro al Cairo (Foto Gambassi)
Il metal detector suona in continuazione. «Avanti, avanti», incita l’addetto alla sorveglianza. Nel dedalo di viuzze del Vecchio Cairo la strada che comincia sotto un arco conduce alla chiesa di San Sergio. È quella che custodisce la grotta in cui, secondo la tradizione, la Sacra Famiglia si rifugiò per tre mesi durante la fuga in Egitto. In un angolo, accanto al battistero, spicca l’albero di Natale. Un bambino stacca una pallina. Il padre s’inchina, la raccoglie e la appende di nuovo.
Fra le navate si sente una musica arcana e struggente. La suonano sotto il pulpito Bassen Zakary che pizzica le corde del salterio e Romani Hermes al liuto. «È un canto della nostra Chiesa copta che s’intitola “Golgota” – raccontano –. Viene eseguito durante la Divina Liturgia delVenerdì Santo prima della deposizione».
Per i cristiani d’Egitto, siano essi i 10 milioni di copti ortodossi oppure la sparuta minoranza dei 250mila cattolici in mezzo a 95 milioni di abitanti in gran parte islamici, il Natale che si avvicina assomiglia più a un calvario – come fa intendere la melodia – che a una festa. Non lo dicono soltanto i posti di blocco davanti a ogni chiesa del Paese, le transenne che bloccano gli ingressi, le camionette e gli scudi dietro cui si nascondono soldati “ragazzini” con il mitra, le telecamere che il governo egiziano ha imposto accanto agli altari. Lo testimoniano soprattutto i sussurri timorosi, il silenzio carico d’incertezza, persino i sorrisi accennati che vogliono lasciare trasparire un barlume di serenità fra troppa apprensione.
Perché nell’ultimo anno ogni solennità cristiana è stata segnata dai lutti: l’11 dicembre 2016 un kamikaze del Califfato saltò in aria durante una celebrazione domenicale nella chiesetta di San Pietro al Cairo facendo 29 vittime; e nella scorsa Domenica delle Palme due attentati del Daesh alle chiese di Tanta e Alessandria provocarono 46 morti. «Lo scorso Natale ha prevalso la paura; quest’anno, per il momento, non ci sono sentori particolari e il governo è molto impegnato a proteggere le chiese – spiega il nunzio apostolico in Egitto, l’arcivescovo Bruno Musarò, incontrando una delegazione dell’Opera Romana Pellegrinaggi –. Ma dobbiamo sempre affidarci alla speranza che per noi discepoli di Cristo viene dall’Emmanuele, il “Dio con noi”. E la speranza è anche quella che non si ripresentino i pericoli del recente passato».
Nella Chiesa copta, come in ogni Chiesa ortodossa, la Natività si celebra il 7 gennaio. Accadrà anche per un segmento dei cattolici del Sud dell’Egitto, benché al Cairo e nel delta del Nilo la data “romana” resti il 25 dicembre. «Per esigenze pastorali è possibile uno slittamento – chiarisce padre Shenouda Shafike Andrawes, direttore dell’Istituto di scienze religiose del Cairo – . Sono numerosi i matrimoni “misti”, ossia fra ortodossi e cattolici. E allora è preferibile che nella stessa famiglia si possa celebrare insieme il mistero dell’Incarnazione, piuttosto che vedersi divisi da una festa».
Il sacerdote vive nel Seminario copto cattolico della capitale. Nell’androne i trenta seminaristi hanno allestito il presepe. «La preoccupazione c’è; non possiamo negarla – ammette padre Shenouda –. Dal 2013 sono stati 17 i siti cattolici devastati, fra chiese e scuole. Però il terrorismo è una minaccia anche per la maggioranza musulmana moderata con cui abbiamo ottimi rapporti». Con la mente torna all’infanzia. «Vengo da un villaggio musulmano dove la mia famiglia era l’unica cristiana. Ma tutti ci sentivamo parte della stessa comunità. La situazione è cambiata negli ultimi venti anni. Ai giovani c’è chi fa il lavaggio del cervello. Ed è la via che porta al fondamentalismo».
In Egitto siamo ancora in pieno Avvento copto. Un tempo segnato da 43 giorni di digiuno e da una forte impronta mariana. Per rendersene conto basta entrare nella “chiesa sospesa” del Vecchio Cairo, costruita sui bastioni della fortezza di Babilonia. Ogni pilastro è avvolto da uno vessillo con la Vergine che tiene fra le braccia il Cristo. Ai piedi della Madonna le parole “La pace sia con te” scritte sia in arabo, sia in copto, le lingue della liturgia locale. «Il Natale ci ricorda che l’Egitto ha bisogno di concordia», dice il vescovo Yolios, vicario per il Vecchio Cairo e le Chiese del Golfo. Ha uno sguardo luminoso ma subito fa sapere: «Non abbiamo paura di morire. E nessuno può impedirci di professare la nostra fede. Gli attacchi di cui siamo stati bersaglio non ci hanno intimorito e non hanno portato a “fughe” dalla comunità. Anzi, il numero dei cristiani è aumentato».
Passano alcuni fedeli che hanno appena superato i controlli. Yolios li benedice poggiando sulla loro testa la croce che tiene in mano. «Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ci è vicino. Ha persino voluto una legge che permette di costruire in maniera molto più agevole le chiese». E confida: «Quando siamo stati colpiti, molti islamici ci hanno espresso la loro solidarietà e si sono anche offerti di proteggere i nostri luoghi di culto». Nel vicino monastero femminile di San Giorgio le suore di clausura accolgono chiunque varchi il minuscolo portone al centro di un imponente muro alto otto metri. «In larga parte sono musulmani che invocano la protezione del santo», assicurano le religiose.
E annunciano: «Com’è tradizione condivideremo con i nostri fratelli islamici il Natale». Il monastero ha il suo vigilante che fa aprire borse o zaini. Nei due chiostri c’è persino un Babbo Natale circondato dalla neve nonostante il termometro rasenti i 25 gradi. «Quanto vorremmo che diventasse realtà il messaggio degli angeli ai pastori che proclamano la pace del Signore », affermano le suore. Implicito il riferimento all’estremismo che semina morti. «La nostra Chiesa si fonda sul sangue che continua ad essere versato ancora oggi – sottolineano –. E i martiri sono il nostro soccorso e la nostra ricchezza».
E per la Chiesa d’Alessandria sono già santi le 28 donne e l’unico uomo uccisi nel dicembre 2016. I loro volti compaiono in una sequenza di gigantografie appese come stendardi davanti alla chiesetta di San Pietro. In una nicchia ecco le statuette del Bambin Gesù, di Maria e di Giuseppe. All’interno restano ben visibili i segni dell’esplosione che ha scalfito in profondità le colonne di marmo e le pareti. Amir ha 23 anni. Si avvicina alla prima colonna e sfiora con le dita i “marchi dell’orrore” come fossero reliquie. «L’attentato non ci ha impedito di festeggiare il Natale – riferisce il patriarca Tawadros II –. Anzi, grazie al governo, la chiesa è stata risistemata in meno di venti giorni e lì ci siamo raccolti subito in preghiera».
Il palazzo del “Papa copto” è a poche decine di metri dal luogo dell’attacco che fa parte della “cittadella” dove svetta la Cattedrale di San Marco, dedicata all’evangelista da cui è nata quest’antichissima Chiesa. «Sono persuaso – aggiunge Tawadros – che la gioia del Natale sarà più grande di qualsiasi angoscia ». Proprio di fronte alla chiesa compare un poster di papa Francesco, descritto come “uomo di pace”, che rimanda al viaggio dello scorso aprile. «È stato un evento che ha dato ulteriore impulso al dialogo interreligioso – osserva il nunzio Musarò –. Perché Francesco ha toccato il cuore di tutto il Paese con la sua affabilità, la sua simpatia, la sua attenzione agli ultimi».
Dal Cairo ci vogliono un paio d’ore di auto per immergersi nel deserto del Nitro che guarda verso Alessandria. È il polmone spirituale della Chiesa copta, la terra del monachesimo egiziano che ha in san Macario il padre. Nel monastero di al-Baramos, che l’anacoreta fondò nel quarto secolo, due aiuole bagnate da una fontana a forma di anfora danno il benvenuto al visitatore con un versetto della Lettera ai Romani scritto sull’erba: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi”. «Nessuno ci è nemico. Il solo nemico è Satana», sussurra padre Makary. Eppure l’atmosfera che si respira non è molta diversa dall’aria tesa del Cairo. Anche queste oasi dell’anima sono presidiate dai militari. Telecamere e metal detector compaiono ovunque. Il pericolo è che in mezzo alle dune i raid del Daesh siano più semplici. «Ma non viviamo nel terrore perché il Signore veglia su di noi», insiste padre Sarabamun del limitrofo monastero di San Bishoi che ospita duecento consacrati. «Molti hanno una laurea – racconta mentre si accarezza la barba –. Ci sono anche medici. Per questo abbiamo un pronto soccorso aperto a tutti, islamici compresi». Sotto le palme, fra le croci che dalle cupole riflettono l’ombra sulla polvere ocra, il cammino verso il Natale sembra quasi in sordina. Effetto psicosi? «Macché – ribatte il monaco –. Vogliamo marcare la distanza dal mondo esterno. Niente decorazioni qui. Solo preghiera».
Tuttavia il 7 gennaio sarà un’insigne giornata. E anche d’accoglienza. «Abbiamo già invitato la gente del posto, in maggioranza musulmana. Offriremo dolci e cioccolata. È un’usanza di ogni monastero copto». Ed è soprattutto un gesto per tentare di ricostruire dal basso un clima di riconciliazione. «In fondo – conclude il monaco – il grande peccato di oggi è l’intolleranza ».