mercoledì 15 gennaio 2025
Alla vigilia della Giornata per lo sviluppo del dialogo tra cristiani ed ebrei parla il presidente dell'Assemblea rabbinica italiana: proviamo a indentificarci con l'altro, a capire cosa prova
Rav Arbib con l'arcivescovo di Milano, Delpini

Rav Arbib con l'arcivescovo di Milano, Delpini - Ansa

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«Non sono d’accordo che la guerra porti necessariamente all’odio: credo che ognuno di noi abbia libertà di scelta, soprattutto gli educatori». A parlare è rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano e presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, che giovedì 16 gennaio alle 18 interverrà a Milano nella Sala Falck della Fondazione Ambrosianeum (via delle Ore, 3) alla Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cristiani ed ebrei sul tema “Il Giubileo biblico (Levitico/Va’iqrà 25)”, che si celebrerà il 17 gennaio. Modererà l’incontro Daniele Garrone, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, introdurrà i lavori Traian Valdman, presidente del Consiglio delle Chiese cristiane di Milano. Sarà presente l’arcivescovo Mario Delpini.

Rav Arbib, qual è il significato del Giubileo nella tradizione ebraica?

Nella tradizione ebraica il giubileo ha significati molteplici, mi soffermerei su due. Anzitutto ha un valore sociale: la terra non è in realtà di proprietà di una persona, dopo cinquant’anni ritorna agli antichi proprietari che l’hanno persa per motivi economici o disgrazie. L’idea della redistribuzione delle ricchezze è fondamentale: nessuno è condannato eternamente alla povertà. Il secondo elemento è religioso: la terra viene redistribuita ma appartiene a Dio. Noi abitiamo ma non possediamo la terra. Credo che questo sia uno dei significati fondamentali del giubileo.

Nel vostro messaggio scrivete sulla necessità di superare tutte le forme di sfruttamento, sia della terra sia degli esseri umani. Quali sono oggi le maggiori forme di sfruttamento?

Purtroppo ce ne sono tante. Pensiamo soltanto alla fame, presente per moltissimi esseri umani; le guerre che portano povertà, destabilizzazione e problemi di ogni tipo. Io vorrei sottolinearne uno: lo sfruttamento dell’infanzia. Ci sono bambini ridotti in schiavitù, che vengono usati nelle guerre, e poi c’è un altro sfruttamento: quello dell’educazione all’odio. Ci sono luoghi in cui l’infanzia viene educata all’odio e non ha modo di difendersi. Nella scuola di Hamas c’è una continua educazione all’odio e questo è un danno terribile per chi è vittima dell’odio e anche per chi odia, soprattutto se questo è un bambino.

Per l’infanzia deprivata a causa della guerra è facile odiare le persone da cui la subisce.

La guerra è sicuramente terribile, però io parlo dell’educazione all’odio in assenza di guerra, un fenomeno molto più diffuso di quanto sembri. Non sono d’accordo che la guerra porti necessariamente all’odio: credo che ognuno di noi abbia libertà di scelta, soprattutto gli educatori. Credo che sia semplicemente scandaloso che l’educazione all’odio possa avvenire in scuole finanziate dalle Nazioni Unite.

Come vede il Giubileo che la Chiesa cattolica ha iniziato?

Parlare di speranza nel programma del Giubileo credo che sia una sfida importante. La speranza è un elemento fondamentale della tradizione ebraica e non solo, diversa dall’ottimismo, cioè dal credere che le cose andranno bene. Nell’ebraismo non sempre si crede che tutto andrà bene, ma credo che si debba credere che le cose si possano fare andare bene. La speranza è strettamente legata alla libertà di scelta, all’idea che niente è deciso in partenza e noi possiamo agire concretamente per migliorare le cose. Che significa capire quali sono i problemi, provare ad approfondirli e agire perché siano risolti senza accontentarsi di soluzioni semplicistiche e di slogan.

Il dialogo ebraico-cristiano in Italia ha una storia sessantennale. Al recente Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli, riconoscendo la positività di questo percorso, ha aggiunto: «A noi sembra che questo processo di comprensione quest’anno si sia interrotto». Perché?

Il dialogo ebraico-cristiano, in questo frangente particolare, è in una situazione di crisi. Noi abbiamo anche preso in esame di non partecipare a questa Giornata. La situazione è molto difficile. Abbiamo sentito una mancanza di empatia da una parte del mondo cristiano e cattolico. Si è sottolineata giustamente la sofferenza delle popolazioni palestinesi, però la sofferenza degli israeliani non è stata presa in considerazione allo stesso modo. La solidarietà per il 7 ottobre è durata un paio di giorni, eppure siamo in presenza di ostaggi tenuti in condizioni terribili, di un Paese che è stato colpito da 40.000 missili. Un altro elemento è la demonizzazione di Israele. Nel mondo ci sono conflitti terribili, alcuni causano milioni di morti, ma se ne parla pochissimo. Sembra che la sottolineatura sia sempre sulla terra di Israele, e questo anche, nel nostro sentire, per i vertici del mondo cattolico.

Etty Hillesum, citata nel sussidio, scriveva che al mondo impoverito del dopoguerra occorre offrire un nuovo senso delle cose. Nel clima di guerra odierno qual è “il nuovo senso delle cose”? Forse cercare di assumere il dolore dell’altro?

Credo che l’invito alla ricerca del senso sia particolarmente adatto alla società in cui viviamo, in cui l’apparenza pare la cosa più importante. Noi dobbiamo cercare di andare a fondo, capire quali sono i nostri sentimenti e valori. Sentire il dolore del prossimo e le sue gioie è importante. La tradizione ebraica ha un precetto che è provare a identificarsi nel prossimo, a capire di cosa ha veramente bisogno. Ma per riuscirci dobbiamo innanzitutto provare a capire noi stessi, quali sono le nostre sofferenze e le nostre gioie. Il comandamento basilare comune a cristianesimo ed ebraismo è “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Dobbiamo partire provando a capire qualcosa della nostra interiorità, non accontentandoci di ciò che è superficiale. Credo sia un compito fondamentale delle religioni.

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