venerdì 7 agosto 2009
Quasi raddoppiato nell’ultimo decennio il piccolo esercito di uomini di buona volontà che ogni giorno varca le porte degli istituti di detenzione. Sono persone che dedicano il loro tempo libero ai reclusi per aiutarli nella difficile opera di riabilitazione. Nonostante le condizioni critiche delle prigioni italiane.
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    Il primo approccio può passare attraverso la richiesta di una maglietta nuova o un flacone di shampo. Oggetti di banale uso quotidiano, preziosissimi invece per chi, spesso, è privo di tutto. «Da questo scambio nasce la prima occasione per entrare in contatto con il detenuto – spiega Paola Cigarini, volontaria da circa 20 anni, nel carcere di Modena –. Serve per rompere le barriere, per entrare in relazione con la persona». È un’attività paziente quella di Paola e delle altre migliaia di persone che, in tutta Italia, si impegnano per stare accanto a chi si trova in carcere. Un’attività fatta di piccoli passi, di piccole conquiste e tanto ascolto.Un vero e proprio esercito, quello dei volontari e degli “operatori non istituzionali” che spendono il loro impegno nei penitenziari italiani: nel 2008 è stata toccata quota 9.286 unità. Cui vanno aggiunti 137 volontari che collaborano con gli Uepe (Uffici per l’esecuzione penale esterna). Numeri in costante crescita: nel 2001 infatti erano poco più di 6.500 e solo quattro anni dopo, nel 2005, si superava di poco la soglia di 8.300 unità. La loro presenza, sul territorio nazionale, però è disomogenea: a soffrire sono soprattutto le regioni del Sud dove si trova il 45,2% degli istituti e il 20,6% degli operatori non istituzionali. Al Nord invece gli operatori della società civile incrementano ancora la loro presenza: quasi un operatore su due (49,1%) è attivo nelle regioni settentrionali. Una situazione a macchia di leopardo, legata anche alle diverse sensibilità dei direttori delle singole carceri. L’attività dei volontari in carcere è regolamentata da due articoli dell’Ordinamento penitenziario: l’articolo 17 ( che prevede la «partecipazione della comunità esterna» al trattamento rieducativo. Ad esempio chi organizza attività formative o ricreative) e l’articolo 78 (persone che partecipano «all’opera di sostegno morale dei detenuti e al futuro reinserimento nella vita sociale»). Un impegno non facile, stare accanto a chi è ristretto in una cella di tre metri per tre. «Non sempre le necessità espresse a parole sono quelle vere, bisogna saper leggere tra le righe. Una capacità che si conquista negli anni», commenta Guido Chiaretti, presidente della Sesta Opera San Fedele di Milano: la più antica associazione di volontariato carcerario della Lombardia ( venne fondata nel 1923 e fu grazie al suo impegno che, nel 1975, vennero introdotti gli articoli relativi al volontariato in carcere, ndr) che organizza anche corsi per aspiranti volontari penitenziari.«Quello che cerchiamo di fare – spiega ancora Chiaretti – è far capire al potenziale volontario in che contesto si deve muovere e quali sono i suoi limiti: il carcere è un mondo con tantissime facce diverse». Ma deve anche sapere che cosa si aspettano gli altri da lui. Saper ascoltare e instaurare un rapporto di fiducia con una persona in difficoltà, certo, ma l’attività del volontario può giocare un ruolo determinante (e molto concreto) sul futuro della persona cui tiene la mano durante un colloquio. «Pochi sanno – aggiunge Chiaretti – che la magistratura di sorveglianza ha un grande bisogno di avere informazioni sulle persone che deve giudicare. A Milano i magistrati sono pochi rispetto alla popolazione carceraria da seguire, hanno un gran bisogno di conoscere la storia delle persone che devono giudicare. E per questo chiedono che i volontari siano antenne capaci di segnalare le situazioni, le storie dei detenuti». Senza dimenticare che ci sono tante altre sfaccettature, decine di altre piccole, ma fondamentali attività: dalla distribuzione di vestiti e generi di prima necessità all’assistenza legale, dal supporto alle famiglie al disbrigo di mille pratiche burocratiche. «Il volontario fa molto per contribuire a dare un senso alla pena – commenta Ornella Favero, coordinatrice del giornale “Ristretti Orizzonti” realizzato dai detenuti del “Due Palazzi” di Padova –. Purtroppo però non riesce a raggiungere un sacco di persone. Il rischio è che il volontariato sia considerato un “tappabuchi” delle carenze delle amministrazioni penitenziarie”.Modena, la sifda: «Ascoltare senza giudicare». Tiene un piede dentro al carcere (quello di Modena, per la precisione) «per ascoltare, senza giudicare» e l’altro fuori «per fare casino, per far capire che problemi come la tossicodipendenza non si risolvono con la galera». Entrare in carcere «vuol dire entrare nel mondo: lì dentro c’è un concentrato di tutti i problemi che il nostro mondo vive oggi, dalla tossicodipendenza all’immigrazione, dalla malattia mentale alla mancanza di lavoro», spiega Paola Cigarini, volontaria da vent’anni e, sino a un anno fa, referente del coordinamento Volontariato in carcere dell’Emilia Romagna. Ed entrare in relazione con questo concentrato di problemi e di sfide spesso, può essere frustrante: «C’è un carico di impotenza fortissimo, che ti può anche avvilire – racconta –. Le carceri sono così affollate che le richieste di aiuto sono tantissime e banali, come una maglietta o i soldi per telefonare a casa». E così va a finire che tu, volontario, non ricordi più a chi hai regalato una maglietta e un sorriso, preludio a un possibile rapporto costruttivo basato sulla fiducia. In queste condizioni si lavora in modo quasi automatico, per dare una risposta alle semplici richieste di ogni giorno. Spesso emerge un senso di impotenza: «Noi parliamo a ragazzi di 23, di 25 anni e non sappiamo cosa dire loro. Come fai a infondere speranza a un giovane che, fra tre anni, uscirà di qui e non avrà nulla perché è straniero e irregolare?», si chiede Paola. La risposta, sta fuori dal carcere: «Occorre sensibilizzare le persone, far capire che la prigione non è una risposta a problemi complessi come la tossicodipendenza o l’immigrazione», conclude. Verona, fra beppe Prioli: «Sogno una prigione diversa». Tutto ha avuto inizio nel 1963, con un articolo di giornale. «Avevo 20 anni e mi trovavo a Gemona del Friuli per un momento di verifica e orientamento vocazionale – ricorda fra Giuseppe (Beppe) Prioli, 66enne frate minore della Provincia veneta –. Sono rimasto molto colpito da quella notizia: io e quel ragazzo avevamo la stessa età. Ho messo a confronto la sua vita con la mia. Io avevo la possibilità di scegliere, mentre per lui tutto era finito». Fra Beppe scrive al giovane detenuto e gli promette che andrà a trovarlo nel carcere di Porto Azzurro, sull’Isola d’Elba, dove sta scontando la sua pena. Riesce a mantenere la promessa solo due anni dopo. E da quell’incontro è nata, nel 1968, l’associazione “La Fraternità” (presso il conventodi San Bernardino), formata da laici e religiosi, che aiutano i detenuti del carcere di Montorio (Verona), stanno accanto alle loro famiglie e, ogni anno, rispondono a circa un migliaio di lettere provenienti dalle carceri di tutta Italia. In questi quarant’anni «tra i lupi», fra Beppe ha visto tanti cambiamenti: «Gli istituti di pena rappresentano la società in cui viviamo. Tossicodipendenti e stranieri, prima non c’erano – ricorda –. Oggi vedo sguarnito il territorio: mancano le persone e le strutture che possono accompagnare gli ex detenuti nella delicata fase del reinserimento». Sogna un carcere diverso, fra Beppe perché il sistema penitenziario che ha sotto gli occhi «è un male: ci sono parecchi detenuti che fanno esperienza della detenzione senza mai incontrare un volontario o un cappellano. Bisogna far capire che il carcere non è una risposta a tutti i reati». Altri sogni nel cassetto, dopo quarant’anni di attività? «Che noi adulti, educatori, parroci e genitori, ci svegliassimo e riuscissimo a mettere fuori la testa, per conoscere meglio nostri giovani. Ed evitare che si perdano “nella notte” – conclude –. E vorrei che anche la Chiesa avesse uno sguardo un po’ più attento sul tema della giustizia e sulla pena».
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