La procura dei minori di Reggio Calabria lavora perché i figli non paghino le colpe dei padri. Né delle madri. «È l’unico ufficio d’Italia che sta seguendo una strada difficile per il recupero di ragazzi che vivono in contesti familiari mafiosi», ha sottolineato il questore della città dello Stretto, Guido Longo, parlando dell’impegno degli inquirenti reggini che da più d’un anno percorrono un sentiero tanto coraggioso quanto difficile. Ma importantissimo, per i ragazzi e le famiglie.
La magistratura inquirente, assieme al tribunale dei minori, sta dando seguito al protocollo d’intesa siglato a marzo con gli altri uffici giudiziari del distretto di Reggio per avere una strategia e quindi una linea d’intervento comune quando ci si trova dinanzi a ragazzi o bambini provenienti da ambienti criminali o imputati in processi per reati commessi in concorso con adulti. Oppure, ancora, vittime di abusi sessuali e d’altro genere. Un accordo a largo spettro, che ha avuto bisogno di mesi di prova sul campo. L’iter è un terreno minato, sul quale tanto il procuratore dei minori Carlo Macrì quanto il suo aggiunto Francesca Stilla si muovono con estrema attenzione. «Non si tratta di beni da sequestrare o confiscare», sottolineano con amarezza. Sono interventi mirati a offrire una possibilità di vita diversa ai ragazzi inseriti in contesti malati, a fare loro toccare con mano che hanno un’altra possibilità e la loro esistenza non è segnata dalla nascita. Il protocollo in Calabria è più importante che altrove perché i clan locali hanno un carattere anzitutto familistico: amicizie e odi, alleanze e vendette si tramandano di padre in figlio, da nonno a nipote. L’accordo non dimentica i figli d’eventuali collaboratori di giustizia, anch’essi assistiti affinché non diventino merce di scambio o peggio ancora di ricatto e intimidazione come già successo. I provvedimenti applicabili ai piccoli sono di vario genere e diversa intensità: dal più blando, con l’affidamento ai servizi sociali che lo controllano a distanza, al più drastico come l’allontanamento dalla famiglia con l’inserimento in una comunità, sempre fuori regione per evitare condizionamenti d’ogni genere. In un anno e mezzo sono stati una decina i casi affrontati dal tribunale dei minori, e per tre-quattro ragazzini le risposte sono state ottime. Comunque si tratta di provvedimenti temporanei, che perdono efficacia al compimento dei 18 anni, quando i ragazzi tornano nelle famiglie d’origine anche se, spesso, i problemi non sono stati risolti. Anzi i giovani sono a un bivio fondamentale della loro esistenza, ancor più bisognosi di un aiuto esterno. Ecco perché inquirenti e autorità giudiziaria chiedono l’intervento degli altri organi dello Stato così come d’associazioni di categoria e altre sigle, affinché aiutino i neo maggiorenni, soprattutto quanti hanno dimostrato di volere davvero cambiare strada, a inserirsi nel mondo del lavoro.