C’erano una volta i 'vu cumpra’'. Oggi quegli immigrati che vendevano chincaglierie, macinando chilometri sulla riviera romagnola, sono per lo più un ricordo del passato. Perché sono sempre di più gli stranieri che decidono di fare il salto di qualità e diventano padroni di se stessi. Tanto che oggi ogni 33 imprese ce n’è una che ha il titolare non italiano, in tutto 165.114, pari al 2,7% delle imprese registrate, il 3,3% di quelle attive. E si tratta di un settore in costante e rapida crescita: nel 2003 erano solo 56.421, a giugno 2008 erano triplicate. Dal 2000 ne sono nate 140 mila al ritmo di 20 mila l’anno. Un dato tanto più sorprendente se comparato al tasso di crescita delle imprese italiane, ultimamente stabile, se non in flessione. Spicca ancora di più, in tempi di crisi diffusa, la buona salute dell’imprenditoria straniera. Una sfaccettatura del pianeta-immigrazione analizzata in modo approfondito da ImmigratImprenditori, il primo rapporto organico sul settore, 272 pagine edite da Idos, voluto dalla fondazione Ethnoland assieme alla squadra di ricercatori del Dossier statistico Immigrazione Caritas/Migrantes. Rivive così in diverse regioni del Nord quella stagione, tra gli anni ’60 e i ’70, caratterizzata dal boom delle piccole imprese messe sù da emigranti meridionali che, dopo l’esperienza come lavoratori dipendenti nelle fabbriche, si mettevano in proprio. Un parallelo che ricorda il passato recentissimo di emigrazione degli italiani. Stavolta però la stagione dell’imprenditoria immigrata riguarda il Nord come il Sud. La parte del leone la fanno le regioni più sviluppate come la Lombardia, con 30 mila imprenditori senza passaporto italiano. Segue l’Emilia Romagna con 20 mila imprenditori, poi Lazio, Piemonte, Toscana e Veneto con 15 mila. 4 mila i Campania, Marche e Sicilia, 3 mila in Calabria, Friuli Venezia Giulia e Liguria, 2 mila in Abruzzo e Sardegna, mille o meno ancora nelle restanti regioni. Perché l’immigrato decide di aprire un’impresa? Per guadagnare di più, visto che mediamente percepiscono il 66% del salario di un italiano che fa lo stesso lavoro, per avere più tempo per sé e la famiglia, ma anche per scrollarsi di dosso un pregiudizio sociale e far valere la preparazione scolastica e professionale che hanno spessissimo dovuto mettere nel cassetto accettando i lavori, che, come si suol dire, gli italiani non vogliono più fare. Quali sono i settori dell’impresa straniera? Al primo posto c’è sicuramente l’industria, con 83.578 aziende, il 50,6% del totale. Al suo interno prevale di gran lunga il comparto edile con 54.549 aziende, 4 su 10 gestite da immigrati solitamente dell’Europa dell’Est. Segue il settore dei servizi con 77.515 aziende, il 46,9%, in prevalenza aziende commerciali (57.723 e 35%) che insieme a quelle edili totalizzano 8 aziende su 10 con titolare immigrato. Molto attivi i marocchini che con quasi 27.952 mila aziende detengono un sesto di tutte le imprese. Seguono i romeni con 23.554 aziende, i cinesi e gli albanesi con quasi 18 mila entrambi, staccati i senegalesi con 8.138, i tunisini con 7.293, gli egiziani con 7.169, i bengalesi con 5.296. Poco presenti nell’imprenditoria invece i filippini, titolari di sole 400 aziende. Chi viene dal Marocco è soprattutto dedito al commercio, dalla Romania e dall’Albania lavora apre imprese nell’edilizia, dalla Cina aziende manifatturiere e commercio. L’immigrato che diventa imprenditore crea lavoro. Anche per gli italiani: la ricerca stima in circa 500 mila i posti di lavoro nelle aziende straniere. Complessivamente gli stranieri in Italia producono circa un decimo del pil nazionale: nel 2006 è stato il 9,2%, circa 122 miliardi di euro. A livello fiscale nel 2007 il loro gettito è stato di 5,5 miliardi. Analoga la cifra del gettito previdenziale, pari a 5 miliardi. Il rovescio della medaglia parla di difficoltà che ostacolano l’imprenditoria immigrata che crea lavoro e integrazione. Se il sistema bancario ha iniziato a capire l’importanza dovuta a questa quota crescente di clienti, inventandosi a iniziative diverse, per cui oggi ogni tre adulti immigrati due hanno il conto in banca e si avvalgono anche di altri strumenti bancari, secondo la ricerca «si rendono necessari ulteriori passi in avanti per pervenire a strategie più inclusive specialmente per quanto riguarda la concessione del credito ». Il vero scoglio - e non solo per gli stranieri – si chiama burocrazia. Un vero ostacolo che frena fortemente lo sviluppo imprenditoriale. Per aprire un’attività autonoma sono necessarie due di settimane durante le quali bisogna rivolgersi ad almeno nove uffici diversi, con una spesa di 3.587 euro, molto di più rispetto agli altri paesi europei. Più del doppio, ad esempio, rispetto alla stessa Germania, come accertato da uno studio del Censis. Non è un caso allora se l’Italia è stata classificata dalla Banca Mondiale solo al 66° posto nella graduatoria mondiale della facilità con sui si apre un’azienda. L’avvio e la gestione delle attività ha un costo di circa 15 miliardi di euro l’anno: se si riducessero questi problemi, la produttività aumenterebbe almeno del 2%. Da non dimenticare infine che l’imprenditoria immigrata è di grande aiuto anche per sostenere i paesi di origine. Nei paesi emergenti nel 2007 sono pervenuti 251 miliardi di dollari risparmiati dagli immigrati. Quasi la metà di quanto l’Italia stanzia in aiuti allo sviluppo per gli stessi Paesi di emigrazione.
Le esperienze di chia ha «sfondato». Anna, Jamil, Romulo, ognuno ha una storia da raccontare. Ad accomunarli il sogno di una vita migliore in Italia e l’essere il simbolo del successo imprenditoriale creato dal nulla. Non aveva nessuna conoscenza commerciale Anna Stanescu, rumena, presidente della cooperativa “Risvolti”, specializzata nell’assistenza alla persona e nella mediazione culturale. «Avevamo solo tanto coraggio quando nel 2001 con alcune amiche abbiamo iniziato questa esperienza mettendo 50mila lire a testa – ha raccontato Anna –. Ora invece gestiamo venti dipendenti e assistiamo 120 anziani; il nostro successo è stato il passaparola». La soddisfazione più grande, ha continuato Anna, è vedere come questo lavoro abbia cambiato il percorso di vita di tante sue collaboratrici, che sono passate dallo sfruttamento e dalla delinquenza alla legalità.Jamil Awan si sente fortunato quando parla di come nel 1991 è riuscito a costruire il consorzio di traduttori ed interpreti che oggi ha 850 dipendenti in tutta Italia. «All’inizio – ha precisato Jamil – il nostro bilancio era in rosso visto che chiedevamo compensi bassi rispetto al mercato, venti euro l’ora, quando la media era di tre volte superiore. Ma la domanda era in crescita e siamo stati in grado di rispondere a questo bisogno. Ora il nostro attivo è di circa 100mila euro l’anno e lo reinvestiamo interamente nel sociale».Il successo di Romulo Salvador, arrivato dalle Filippine nel 1984, ha alle spalle l’instancabile forza di Emy, sua moglie. È a lei che va il merito, ha precisato, di aver fondato la ditta “Sariling Atin”, che da anni spedisce in patria regali ed effetti personali dei filippini che vivono e lavorano in Italia. «Sono venuto qui per partecipare al matrimonio di mia sorella – ha continuato – e ci sono rimasto. Inizialmente facevo il cameriere, oggi però mi sento un imprenditore che ha realizzato un sogno».Dietro i successi degli immigrati però, restano e spesso incombono i problemi burocratici e finanziari di ogni titolare d’impresa, aggravati dal non conoscere la lingua e le norme del nostro Paese. Gli stranieri, infatti, hanno maggiori difficoltà nell’accesso al credito, nel riconoscimento dei titoli di studio e professionali. Un’apertura arriva dall’Associazione bancaria italiana che ha dato la sua disponibilità per migliorare i servizi destinati agli immigrati, fra questi anche il ricorso al credito per chi vuole avviare un’attività. «Gli stranieri sono i nuovi cittadini e oggi occupano circa 350 mila posizioni bancarie – ha precisato Gianna Zappi, capo dell’ufficio responsabilità sociale dell’Abi –; per questo le banche hanno tutto l’interesse a fare ricognizioni nel settore ed assicurano spazi di miglioramento».Chiede di abbassare “i ponti levatoi” anziché alzarli Sergio Silvestrini, segretario generale della Confederazione nazionale artigianato. «La crisi economica – ha detto – è un grande momento per l’integrazione, un Paese come il nostro deve aprirsi a questa sfida», anche perché nel mondo imprenditoriale gli immigrati «sono generalmente più colti, hanno anche più voglia di fare rispetto ai coetanei italiani. Dobbiamo capire che l’integrazione non è solo un grande valore monetario, ma un grande insegnamento».Non usa giri di parole Otto Bitjoka, presidente della fondazione Ethnoland, da 33 anni in Italia, un paese che sente ormai suo, ma che non riconosce più. «L’imprenditoria – ha precisato – è una vocazione e questo vale anche per gli immigrati. Gli imprenditori stranieri, però, oltre ai problemi dei colleghi italiani, come la difficoltà per l’accesso al credito e la formazione, vivono anche la discriminazione per essere tali».