martedì 8 ottobre 2024
Piazza San Marco e altri scorci della città al tempo della pandemia. Oggi, forse, occorrerebbe fare un passo indietro a quei momenti e porsi le stesse domande su che mondo vogliamo

Questa puntata della nostra rubrica settimanale dedicata alla scoperta del mondo voglio dedicarla a qualcosa di decisamente insolito, anzi, direi proprio unico: Venezia. Qualcuno obietterà che per quanto bellissima, Venezia non è certo l’oggetto più sorprendente e inaudito per una rubrica di questo tipo, ma la Venezia di cui voglio parlarvi oggi è una Venezia che in pochissimi hanno potuto vedere con i propri occhi, ed è una Venezia il cui ricordo può aiutarci a mettere in prospettiva alcune cose importanti nella nostra vita, specialmente in un momento buio come quello odierno, dove il mondo sembra rincorrere la guerra e la distruzione con un entusiasmo a dir poco sconvolgente e inimmaginabile fino a qualche anno fa. Correva l’anno 2020, e l’arrivo della pandemia da Covid-19 rinchiuse il mondo in casa per diversi mesi a partire da quel 9 marzo che tutti ricordiamo. Ho un ricordo molto vivido di quei momenti: da un lato l’enorme frustrazione di vedere cancellati tutti i progetti e le attività a cui immaginavo di dedicarmi in quella primavera. Dall’altro un’improvvisa consapevolezza che tutto ciò che potevo fare fino a quel momento, e che davo per scontato…scontato non era, e che poteva essermi tolto in qualunque momento. Ricordo allo stesso tempo delle settimane di meravigliosa quiete nelle mura di casa, con i miei cari, un momento in cui riordinare alcune cose della mia vita, immaginare qualcosa di diverso, e fare una sorta di bilancio di ciò che era stato fino a quel momento in attesa di poter poi ripartire. Passarono così i circa 3 mesi di restrizioni severissime ad ogni spostamento, tra comuni e regioni. Chi un mese prima considerava normale andare da un continente all’altro, all’improvviso doveva mettere in conto i posti di blocco dei carabinieri nel cercare di raggiungere un amico nel comune accanto al proprio. Era anche un periodo di complessivo ottimismo, era il tempo dei “ce la faremo” e “ne usciremo migliori”. Ahimè, come tutti sappiamo, la realtà sarebbe poi stata ben diversa.

Tuttavia il giorno in cui venne rimosso il vincolo di movimento tra le regioni presi il primo treno e decisi di andare a trovare un amico a Venezia, appunto. Ed è di quella Venezia, quella di quei giorni e di quel periodo, che voglio raccontare. La città che è il simbolo nazionale dei problemi derivati dall’”overtourism”, la città della folle incontrollabili di turisti, così numerosi da spingere le autorità a inserire tornelli di accesso, la città che vede la sua popolazione sparire progressivamente, impossibilitata a condurre una vita normale dall’eccessiva conversione turistica delle attività cittadine….era in quei giorni completamente deserta. Una città fantasma, quasi, per la prima volta tornata a essere in mano solo ed esclusivamente ai suoi cittadini per i suoi cittadini. Parlai con diverse persone, in quei giorni dove regnava, come è ovvio, il timore che tutte le principali attività legate al turismo avrebbero rischiato di chiudere o affrontare perdite colossali.

Ciò che riscontrai, però, era anche la sensazione di una città che era felice di prendere una boccata di ossigeno, che finalmente riscopriva i suoi spazi e la sua poesia. In quei giorni di giugno pioveva, e suonavano le sirene di allarme per l’acqua alta che dalla laguna avrebbe presto ricoperto Piazza San Marco. Tutti i principali musei erano chiusi, al mattino non c’erano che poche anime a spasso per le viuzze strette della città. Ebbi l’occasione di scattare foto indimenticabili, di una Piazza San Marco totalmente deserta, persino sommersa dall’acqua. Immagini virtualmente impossibili prima e dopo la parentesi pandemica. Immagini che guardo con sentimenti contrastanti che mi portano da un lato a provare gratitudine per il fatto che quel periodo di grandi restrizioni mondiali sia finalmente finito, e dall’altro a constatare con amarezza che la rabbia e la frustrazione sociale di quel periodo si sono aspramente evoluti verso l’odio che domina la scena internazionale e tutti i mezzi di comunicazione in una fase storica dove la guerra è tornata ad essere parola di uso distratto e normalizzato.

Ricordo, durante il primo lockdown, che in molti si consolavano dicendo “potrebbe andare peggio, pensa se ci fosse una grande guerra”: certo nessuno immaginava quanto vicini ci saremmo arrivati, pochi anni dopo, a questa grande guerra, con il conflitto Russo-Ucraino che continua a infuriare nell’est europeo e con il medio-oriente che vive in questi giorni la più pericolosa escalation della sua storia, proiettando il mondo verso scenari da terza guerra mondiale. Riguardare queste immagini di quella Venezia unica e irripetibile mi riporta la mente a quel silenzio surreale, a quella quiete forzata che obbligò tutti a guardarsi allo specchio ed essere grati per le cose semplici della vita, per ciò che si aveva mentre milioni di persone morivano nelle terapie intensive degli ospedali di tutto il mondo.

Oggi, forse, occorrerebbe fare un passo indietro a quei momenti e porsi le stesse domande, chiedersi se il nostro personale contributo alla società è parte del problema o parte della soluzione. Chiederci se in fondo al cuore siamo persone che nel grande oceano del mondo contribuiscono con gocce di pace o gocce di odio. Oggi, forse, sarebbe utile ritrovare dentro di noi quel silenzio e chiederci che cosa è stato di noi, delle nostre intenzioni, dei nostri pensieri. Chiederci se davvero, con tutto quello che abbiamo vissuto in questi 4 anni, ne siamo davvero usciti migliori.

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