Si avvicina la parola fine per i campi rom? Angelino Alfano promette di sì. Anche se il come e il quando restano in sospeso. Martedì il ministro dell’Interno e l’Anci avevano annunciato lo «smantellamento» dei campi sostituendoli con «soluzioni più civili». Ieri Alfano è tornato sull’argomento, lasciando però punti interrogativi: «La nostra regola è: prima gli italiani. E proprio per questo principio noi dovremo buttare fuori dal territorio nazionale tutti quei rom che non vorranno sottoscrivere un patto con lo Stato italiano di emersione dalla loro condizione a volte borderline». Chi aderirà a questo "patto" potrà «partecipare a un programma di assegnazione di luoghi più civili nei quali vivere». Il tutto, ha assicurato il ministro, nel «rispetto delle norme comunitarie». Lo Stato stanzierà risorse economiche ma «l’individuazione delle soluzioni spetterà ai sindaci».
Solo un nomade su 5 nei campiL’annuncio di Alfano arriva una ventina di giorni dopo il pronunciamento del Tribunale civile di Roma che aveva giudicato «discriminatoria qualsiasi soluzione abitativa di grandi dimensioni diretta esclusivamente a persone appartenenti a una stessa etnia». Il riferimento è La Barbuta, il campo nomadi di Roma dove vivono un migliaio di persone. È il più grande d’Italia, ma è anche fuori scala rispetto alla situazione nazionale. Secondo le stime nella penisola vivono tra i 175 e i 200mila rom, di cui solo 40mila abita nei campi, sia regolari che irregolari. Alfano minaccia l’espulsione di chi non si adeguerà, ma almeno la metà dei rom sul suolo nazionale sono di cittadinanza italiana. Il restante 50% è composto da cittadini provenienti dall’est europeo, giunti in Italia sui flussi della migrazione economica. Quasi nessuno è nomade: le stime parlano di una quota superiore al 95% di stanziali. Il fatto che in migliaia vivano in baracche è dovuto alla scelta politica negli anni 70 di creare campi per "nomadi", superati ormai dalla realtà. Una opzione che però, racconta chi opera nel settore, non ha fatto altro che ghettizzare ulteriormente la popolazione, attivando dinamiche di autoesclusione e favorendo criminalità e devianza.
Non solo campiLe soluzioni alternative? C’è già chi ci lavora. A Padova, ad esempio, sono stati realizzati appartamenti coinvolgendo nella costruzione alcuni sinti. Se per lo più si lavora sull’accesso all’edilizia pubblica, in Toscana ed Emilia sono state anche allestite microaree per caravan con luce, acqua e gas (assenti nei grandi campi) a carico di chi vi vive. Il cuore però è il problema dell’inclusione: che dovrebbe lavorare anche (o soprattutto) sulla popolazione italiana. Un recente sondaggio condotto su sei paesi europei dice che l’85% degli italiani nutre sentimenti anti-rom. Al secondo posto la Francia con il 66%.
«Serve un patto di cittadinanza»«Siamo stanchi degli annunci. Il problema rimane». Don Virginio Colmegna conosce in profondità il problema. La sua Casa della Carità opera da anni nei campi rom con presidi sociali e soprattutto percorsi di accoglienza e autonomia con l’inserimento in situazioni residenziali, che vanno oltre l’emergenza per dare risposte strutturali. «Il superamento dei campi rom è una strategia da condividere. Serve però un clima, un patto di cittadinanza forte – commenta don Colmegna –, operare per l’inclusione sociale. Premiare chi accetta un sistema di regole serve a poco. Sono troppi ormai gli anni di abbandono, di segregazione». L’esperienza della Casa della Carità offre alcune soluzioni: «Accompagnare queste persone con l’inserimento lavorativo e abitativo. La politica abitativa è centrale: non è preferenza ma integrazione. Solo così sarà più facile che i bambini vadano a scuola e le donne entrino in un percorso di acculturazione e di lavoro. Ma per fare questo serve sterilizzare il dibattito dalla polemica politica».
Una strategia zoppaMa la politica sui rom ci campa. È un tema che porta consenso e non risolvere il problema può essere utile. Su pressione dell’Europa l’Italia nel 2012 ha varato la "Strategia nazionale di inclusione dei rom, dei sinti e dei caminanti". Un documento giudicato positivamente dalle associazioni che operano sul campo. Ma l’attuazione è affidata alle Regioni, che dovrebbero aprire un tavolo per valutare le strategie locali. Al febbraio scorso solo in dieci l’avevano attivato. Tra queste, ad esempio, non c’è la Lombardia.