Mario Draghi da un anno al governo - Ansa
«È un momento difficile. La consapevolezza dell’emergenza richiede risposte all’altezza della situazione. Servono unità e responsabilità». Sembra passata un’era geologica, ma era appena il 3 febbraio 2021 quando Mario Draghi, ricevuto da Sergio Mattarella l’incarico di formare il governo, pronunciava queste parole. Dieci giorni dopo, il suo esecutivo giurava al Quirinale. Domenica si celebra, in agrodolce, il compleanno di un passaggio politico ed istituzionale complicato e drammatico: la nascita, in piena pandemia, del terzo governo della legislatura, guidato dal più influente leader europeo e sostenuto da una larga ed eterogenea maggioranza. Un assetto agli antipodi sia con il Conte 1 gialloverde sia con il Conte 2 giallorosso, a chiudere la legislatura più contraddittoria della storia recente del Paese, tra l’altro l’ultima con 945 parlamentari.
Pronti via e scatta la rivoluzione nella campagna vaccinale, con la nomina a commissario straordinario del generale Francesco Paolo Figliuolo e l’archiviazione dell’era di Domenico Arcuri. Nonostante il caso-Astrazeneca e le difettose comunicazioni scientifiche e politiche sul vaccino anglosvedese, e nonostante le prime ondatine no-mask e no-vax, le somministrazioni decollano e in pochi mesi l’Italia è in testa ai Paesi Ue. Uno scatto che aiuta la ripresa economica: da aprile 2021, in anticipo rispetto alle previsioni, inizia l’alleggerimento delle restrizioni e il Pil avvia un rimbalzo oltre le medie europee, sino al più 6,5% di fine anno.
Il premier vive una luna di miele con il Paese e anche con i partiti che lo sostengono, e il 30 aprile invia a Bruxelles, nei tempi stabiliti, quel Pnrr che era stato l’oggetto della crisi innescata da Matteo Renzi contro Giuseppe Conte.
Nel «no» ai richiami centristi
Ad agosto arrivano anche i primi 24,9 miliardi di fondi ma la strada, che sembrava in discesa, improvvisamente - ma non imprevedibilmente - s’impenna. I partiti che sono in maggioranza al governo nazionale sono contrapposti alle elezioni nelle cinque principali città italiane, Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna. Il Pd e il centrosinistra si rialzano, la Lega perde con il centrodestra, M5s si tiene a galla solo dove collabora coi dem. Paga nelle urne, e si vede, il modo in cui si sta al governo. Ma i leader in affanno cercano di rifarsi proprio sull’esecutivo. Salvini contesta la nuova linea economico-sanitaria, che "normalizza" la vita dei vaccinati e indirizza con forza e obblighi crescenti verso l’immunizzazione anche chi non è convinto o proprio non vuole saperne. Conte, invece, rispolvera le bandiere penstastellate e mette nel mirino chi nel Movimento - Di Maio in testa - gli sembra più leale al premier che a lui.
È l’antipasto della partita del Quirinale, dove la divisione si palesa: un pezzo trasversale di maggioranza lavora per portare Draghi al Quirinale, l’altro pezzo, che fa perno proprio su Salvini e Conte, lo blinda a Palazzo Chigi. Alla fine richiamare in servizio Sergio Mattarella diventa l’unico modo per non perdere anche la leadership dell’ex capo della Bce.
La ferita è ancora viva e da quella ferita Draghi ha fatto partire la fase 2 del suo governo, che si concluderà a scadenza naturale della legislatura nella primavera 2023. Meno mediazioni con i partiti - chi ci sta ci sta, come nell’ultimo decreto Covid -, il ritorno a una tempistica certa sui dossier da chiudere (ultimo caso, la riforma del Csm) e soprattutto nessun assecondamento alle chiacchiere pre-elettorali. Il triplo «no» pronunciato giovedì dinanzi alla stampa (l’indisponibilità al ruolo da federatore del centro, a una sua permanenza in politica nel 2023 e a essere indicato a questo o quell’incarico nazionale o europeo) suona come un avviso: nessuno provi a tirarlo in campagna elettorale né in modo diretto né in modo indiretto. Nessuno, cioè, provi a raccogliere consenso dicendo «se votate noi indichiamo Draghi premier». Un gioco, che già era iniziato, e che all’ex capo Bce è parso inaccettabile e pericoloso per gli obiettivi da raggiungere, anche perché sarebbe il pretesto perfetto per quei leader che già premeditano di fare, pur dalla maggioranza, una campagna elettorale "anti-sistema".
È anche, se così si può dire, una "lezione" che il premier ricava dalla partita del Quirinale, in cui ha giocato un ruolo negativo anche la sensazione che lui non fosse indifferente al richiamo della più alta carica istituzionale. Meglio, con questa politica, tenere la testa bassa sui dossier. Meglio non offrire preventivamente ombrelli, disponibilità, scudi e vie d’uscita sicure che, anziché alimentare responsabilità e coesione, servono ai leader su un piatto d’argento la possibilità di giocare col fuoco senza mai scottarsi.