giovedì 10 novembre 2016
L'ex premier: dopo Brexit, è suonata un'altra grande sveglia per l'Europa
Enrico Letta: «Trump non è Reagan, molti i rischi»
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Dopo l’esito del voto Usa Enrico Letta ha scritto un tweet: è «la più grande rottura politica dalla caduta del Muro di Berlino». Un paragone 'forte', che l’ex premier argomenta: «Per due motivi – risponde –. In primo luogo perché dimostra che è diventata centrale la separazione in corso fra la classe politica e il corpo elettorale. Dopo Brexit, questa è un’altra vittoria sull’antipolitica. Trump ha chiesto il voto anche contro il ceto politico repubblicano. È incredibile: Hillary Clinton ha preso il 93% a Washington, Trump solo il 4%. Il distacco fra i luoghi del potere e quelli della gente è diventato un abisso. Questo deve interrogarci su come sarà la nuova era della politica».

Lei come la vede, questa era?

Queste 'lezioni' provano che è inutile tornare indietro ai vecchi partiti. Bisogna andare avanti e ragionare su come connettersi in futuro con gli elettori, su come fare partecipare di più le persone. È impressionante l’errore dei demo-cratici, il non aver capito che Hillary era percepita come un campione dell’establishment.

E l’altro motivo?

Il successo di Trump è uno stop per la democrazia come l’abbiamo concepita finora, è un inno al politically incorrect, a tutto ciò che è fuori dei canoni di correttezza.

È sbagliato pensare che il voto sia in parte anche una bocciatura dell’eredità lasciata dagli otto anni di Obama?

Io penso che Obama avrebbe rivinto, se fosse stata possibile una terza candidatura. Noi siamo stati persino 'viziati' da un leader come lui, carismatico e moderno. E anche un partner perfetto per la Ue: ha sempre cercato le soluzioni, è stato costruttivo. Gli elettori non votano mai sull’eredità, ma sul futuro. Stavolta hanno rifiutato la Clinton, che per mille e uno motivi è stato il candidato meno adatto.

Ma dal suo osservatorio dell’università di Sciences Po a Parigi non aveva percepito nulla di questa tendenza?

Racconto un episodio. Abbiamo tenuto vari seminari sulle elezioni, con circa 400 studenti americani. Alla fine abbiamo chiesto loro come avrebbero votato. Metà era per Clinton, metà avrebbe preferito Sanders. Solo uno ha detto apertamente che votava per Trump. Eppure il 95% della discussione era stata incentrata su di lui, su ciò che avrebbe o non avrebbe potuto fare. Questo aveva portato a chiedermi: se l’attenzione è tutta su Trump, vuoi vedere che sarà più complicata del previsto?

E ora cosa prevede, o teme?

Dovremo vedere nel merito quali azioni Trump svilupperà, dato che in campagna elettorale ha detto tutto e il contrario di tutto. A partire dalla politica estera, da quella militare e dalla lotta al terrorismo, vitali anche per l’effetto che hanno su tanti altri campi, come le politiche per le migrazioni che impattano sulla vita di ciascuno di noi. Certo, se pensiamo che lui ha in mano i destini della più grande potenza del mondo...

Qualcuno azzarda adesso un paragone con Reagan.

Si fa un torto a Reagan, che peraltro ebbe l’abilità di circondarsi di collaboratori di altissimo profilo. Penso a un segretario di Stato come James Baker, vedremo ora la squadra che metterà su Trump... Non lo paragonerei né a lui né - come fanno altri - a Berlusconi, mai arrivato ai suoi livelli: Trump ha costruito una carriera politica sull’insulto, sulle bugie, anche sulla cattiveria. Ricordiamo la sua campagna per sostenere che Obama non fosse un cittadino americano, i suoi giudizi sulle donne, gli ispanici, i 'diversi' in genere. Non facciamo scattare lo schema per cui ha vinto e, quindi, oggi diventa 'buono'. Il giudizio su di lui non cambia ed è durissimo: ha illuso il popolo americano che si possano risolvere facilmente i motivi di frustrazione. Vedremo se le sue prime parole, più concilianti, saranno seguite da fatti.

Come si spiega allora la sua vittoria?

Oltre ai limiti di Hillary, sicuramente Trump ha parlato a quella che si usa definire 'la pancia' del Paese. Hanno prevalso le dinamiche moderne della democrazia. Legate alla spettacolarizzazione e al ruolo di Internet. Trump è un outsider politico, ma anche una star di altri mondi, come i social network e la tv. Il sistema politico non seleziona più il cittadino 'normale'. Le nuove forme di comunicazione portano a esaltare la battuta più che il ragionamento, i concetti da 100 caratteri l’uno. E in questo Trump è un campione.

Almeno la linea più filo-russa di Trump non è una novità da cogliere?

Sì, aveva fatto delle aperture, ma non sono così sicuro che le mantenga. Mi colpisce di più che su molti temi non ci sarà più un’alleanza forte con gli Usa. Penso all’ambiente, dove l’enciclica di papa Francesco rappresenta tutto un altro mondo rispetto a chi afferma la bufala che il cambiamento climatico è un’invenzione dei cinesi per mettere in crisi le industrie americane.

Per l’Europa, e per l’Italia, quali conseguenze prevede?

L’Europa deve darsi una grande sveglia, a questo punto è più sola. Abbiamo tutti una responsabilità in più. Dobbiamo sviluppare un’idea di maggior responsabilità, capace di farci rilanciare lo sviluppo dei nostri valori. E smetterla con le inconcludenze e i piccoli litigi di questa Ue, anche in materia di conti pubblici, per capire che dobbiamo trovare le ragioni per stare più uniti. Vedo due conseguenze, soprattutto: un’America più isolazionista e meno presente nel Mediterraneo, dove dunque le nostre responsabilità saliranno, e una crescita dei fattori d’instabilità. E questo potrebbe portare più volatilità sui mercati, con il timore - che dovrebbe farci tremendamente paura che i nostri tassi d’interesse tornino a essere quelli di prima del Quantitative easingdi Draghi. Per noi, vedo più rischi che opportunità.

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