Ci sono piccole norme che a volte sono la spia di scelte più ampie, di orizzonti culturali che segnano una svolta e delineano un nuovo futuro. A questo genere di “norme spia” appartiene l’articolo 18 del disegno di legge in materia di sicurezza, con cui si introdurrebbe nel codice un nuovo reato: la “rivolta in istituto penitenziario” (415 bis c. p.).
Un reato con cui si punisce chi, all’interno di un carcere, organizza o anche solo partecipa ad una rivolta di tre o più persone mediante «atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione».
La novità non sta nell’incriminazione delle condotte violente o nel titolo del nuovo reato: «Rivolta in istituto penitenziario». Le rivolte in carcere sono sempre state represse per i reati che durante la rivolta si commettono. Tipicamente: violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, evasione e (nei casi più gravi) incendio, sequestro di persona o lesioni. Non c’era certo bisogno di un nuovo reato per punire queste condotte.
La novità sta in tre parole: “resistenza anche passiva”. Se si volesse brutalmente sintetizzare con uno slogan, il messaggio sarebbe: protestare pacificamente è un reato. O meglio: chiunque, se libero, può protestare pacificamente. Ma, se lo fa in carcere, sarà punito con altro carcere. Punire la semplice disobbedienza (di tre o più persone) ad “ordini impartiti” significa, tanto per fare alcuni esempi che traggo dal commento di un esperto di diritto carcerario, incriminare la protesta pacifica di detenuti che, magari per protestare contro il sovraffollamento, si «rifiutano di pulire o ordinare le camere o di adempiere agli obblighi lavorativi o anche solo di fare la doccia» (Alberto de Sanctis su “Il Riformista” del 23/12/2023).
Sono tutte condotte che oggi possono tutt’al più configurare un illecito disciplinare e che, con la riforma, costituirebbero invece un reato. Chiunque abbia una minima conoscenza del carcere e della sua vita interna comprende che ciò significherebbe gettare benzina sul fuoco.
C’è – in questa criminalizzazione della disobbedienza pacifica a carico esclusivamente di una categoria di persone (i carcerati) che, proprio in quanto già privati della libertà personale, non hanno altro modo di protestare – un quid di ostilità difensivo-repressiva che davvero fa paura. Dietro questa novità vi è una concezione del carcere che viene da lontano e che negli ultimi anni si è radicalizzata: concepire la prigione come vendetta e unica vera sanzione, avendo come orizzonte ossessivo l’idea di «più reati, pene più alte, circostanze aggravanti sempre più severe».
È una filosofia pervasiva e che ha messo radici sempre più profonde a prescindere dalle maggioranze al governo del Paese. Non dimentichiamo che un sottosegretario alla giustizia di un governo sostenuto anche da partiti di sinistra – chiamato a rispondere in Parlamento alle immagini degli agenti che, per reprimere la rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nella prima fase del Covid, manganellavano detenuti anche sulla sedia a rotelle o già caduti in terra (quei video si trovano ancora nei siti web di vari quotidiani) – disse che si era trattato di una «doverosa azione di ripristino di legalità»
Allora, pochi protestarono. Oggi, di fronte a questa piccola rivoluzione culturale che, per la prima volta nella storia della legislazione italiana, considera reato la resistenza passiva, pochi protestano (ad eccezione di associazioni come Antigone o degli avvocati penalisti).
Di fronte a una politica che quotidianamente rincorre piccole polemiche su piccoli fatti, nessuno ingaggia, sull’opposizione a questa norma, una battaglia prioritaria in cui mettere in gioco la propria persona. In giorni e ambiti come questi viene da rimpiangere le battaglie liberali di un uomo come Marco Pannella.