sabato 14 maggio 2022
Stresa rialza la testa dopo la tragedia della cabinovia, ma i turisti si fermano sul lago. La crisi delle attività in vetta, le ferite del territorio. «Manca giustizia»
E lunedì 23 il ricordo delle 14 vittime. «Dolore insopportabile». L’arrivo della funivia, come si presenta oggi

E lunedì 23 il ricordo delle 14 vittime. «Dolore insopportabile». L’arrivo della funivia, come si presenta oggi

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È appena passato mezzogiorno, a Stresa, il 23 maggio del 2021, quando arriva un sos dalla stazione di arrivo della funivia, sul Mottarone: «Una cabina è caduta». Un’ora dopo circa la scoperta, 800 metri più in basso: nello schianto sono morte 13 persone. Due bimbi vengono estratti vivi: uno, Tom Biran, morirà poco dopo a Torino. Il fratello, Eitan, sopravviverà per miracolo.

Già da subito è evidente la responsabilità umana dell’accaduto: la fune che reggeva la cabina si è spezzata, ma il freno che avrebbe dovuto bloccarla non è entrato in funzione. L’ipotesi della procura di Verbania è che siano stati inseriti volutamente dei forchettoni per bloccarlo, poi trovati: vengono arrestati il gestore dell’impianto Luigi Nerini, il direttore di esercizio Enrico Perocchio e il caposervizio Gabriele Tadini. Quasi subito scarcerati, però, dal gip, che di fatto smonta le tesi della procura. Ne nasce una battaglia tra giudici, che finisce con la sostituzione dello stesso gip, mentre gli indagati prima vengono messi ai domiciliari poi di nuovo liberati. La prima udienza del processo è fissata per il 14 luglio, entro il 30 giugno verranno depositate le perizie.

Parallelamente alla vicenda giudiziaria per il disastro si sviluppa quella per l’affidamento del piccolo Eitan, il bimbo israeliano sopravvissuto che nell’incidente ha perso tutta la famiglia. Gli zii lo accolgono, il nonno materno lo rapisce e lo porta a Tel Aviv, Israele lo restituisce.

C’era una volta la funivia, e non c’è più. A raccontarlo al gruppetto di turisti tedeschi fermi ad aspettare all’imbarcadero, sul piazzale soleggiato, non ci crede nessuno. La più giovane – è l’unica che parla italiano – sgrana gli occhi e punta il dito verso l’orizzonte: «Isole borromee, noi siamo a Stresa per il lago. Dov’è la montagna?». È lassù, si chiama Mottarone. Un anno fa, qui, fratelli e cugini e amici di chi dalla funivia non sarebbe più sceso correvano avanti indietro disperati, chi con la maglia sopra il viso, chi con una foto sullo schermo del cellulare: «Li avete visti salire? C’erano anche loro?». All’Idrovolante, il baretto che fa tutt’uno con la stazione di partenza (chiusa, naturalmente, e ancora sotto sequestro come tutto l’impianto), quel 23 maggio non lo dimenticheranno mai: «Io non ero di turno, stavo salendo proprio in vetta, con la bici – racconta il titolare Angelo –. Abbiamo visto la gente uscire dal bosco, abbiamo capito subito che era accaduto qualcosa di terribile». In terrazza, di fronte all’Isola Bella, continuano ad arrivare clienti, ma sui conti del bar le quasi 150mila persone all’anno che salivano e scendevano dall’impianto pesano: «Nonostante qui non sia arrivato un soldo (ai risarcimenti sono stati ammesse solo le attività in vetta, ndr) abbiamo comunque ricominciato a lavorare, si lavora adesso» ripete Angelo dal bancone, senza troppa voglia di guardare indietro.

Il parroco, don Gian Luca Villa, la chiama la “scorza stresiana”: «Si preferisce far silenzio dalle nostre parti e darsi da fare». Così di Luigi Nerini e Gabriele Tadini, gestore dell’impianto e caposervizio – due dei tre indagati per la strage del Mottarone, uno della vicina Baveno e l’altro di Stresa – nessuno vuol parlare, anche se poi tolta la scorza si finisce col saperne tutto: dove bevevano il caffé, cosa fanno i figli, perché è possibile (o impossibile) che abbiano commesso un simile errore, trasformandosi in Caino. «A me preme pensare ad Abele invece – continua il don –, perché l’unica certezza che abbiamo è che le 14 persone rimaste schiacciate in quella cabina sono vittime innocenti. E questa è una ferita ancora aperta, per la nostra città, sanguinante. Perché manca giustizia». Nel viavai del lungolago, a dire il vero, è difficile veder Stresa soffrire: i camerieri ben vestiti agli ingressi dei chioschi, le imbarcazioni private attraccate agli arenili, i giardini fioriti di fucsia accecante davanti ai Grand Hotel. Il post Covid ha riversato sulla sponda del lago tonnellate di turisti da Pasqua, insieme a introiti come non se ne vedevano dal 2019. A don Gian Luca toccano 40 matrimoni da celebrare tra la chiesa parrocchiale e quella di Carciano (che ha la vista panoramica sul lago), oltre che un Grest pronto ad ospitare anche una decina di bimbi ucraini, arrivati con le madri o le zie a casa delle nonne-badanti, a Stresa da tanti anni. E per fortuna che ci sono, tante giovani profughe, «perché qui i ragazzi non vogliono lavorare negli alberghi e nei ristoranti e queste donne, oltre a trovare subito lavoro e la possibilità di sostenersi, rispondono a un bisogno vitale per il territorio» racconta il parroco.

Per vederla, la ferita sanguinante, tocca arrampicarsi su, tra i muretti e le ville eleganti, lungo la statale che sopra Gignese diventa la strada privata della famiglia Borromea (c’è persino un piccolo casello dove si paga il pedaggio). La prima tappa è al Giardino botanico Alpinia, un’oasi di proprietà dell’Unione dei comuni del comprensorio che custodisce più di un migliaio di esemplari di piante alpine e subalpine. A duecento metri dall’ingresso faceva la sua tappa mediana la funivia, scaricando vagonate di turisti che si mettevano in coda per passeggiare nel parco e scattarsi selfie col blu per sfondo. «Questo era il prima» racconta sconsolato il giovane gestore, Ivan, che si occupa anche del vivaio forestale. Sarebbe l’esempio plastico del ragazzo volenteroso che decide di rimanere dov’è nato, valorizzando la sua terra, «se solo qui ci venisse ancora qualcuno». Già, perché senza funivia al Giardino il fatturato è crollato dell’80% e il Comune non ha attivato un servizio pubblico di navette dal centro di Stresa. «Mi sto arrangiando da solo – continua Ivan –, dovrei riuscire a organizzare un piccolo bus forse già entro un mese o due». Ma la sensazione è che non basti se giù, dove i turisti brulicano, il Giardino – che è di proprietà del consorzio dei Comuni e non è entrato nelle attività destinatarie dei risarcimenti – non viene anche un po’ sponsorizzato: «Solo per coprire le spese a me serve che dal cancello entrino 50 persone al giorno. Oggi ne ho avute 10».

Non sono i problemi dell’Adventure park, immerso nelle grandi abetaie ai piedi della vetta: per volare da un albero all’altro attaccati a una fune dalle grandi città arrivano pullman e grandi compagnie, la funivia non faceva la differenza nemmeno prima. I guai tornano più su, all’arrivo, lì dove il disastro ha preso forma: 5 hotel e 7 attività di ristorazione, stavolta tutti assegnatari di fondi (le lettere sono arrivate in questi giorni, i soldi ancora no), ma tutti in oggettiva difficoltà. C’è chi come Stefano, pilastro dell’Alp bar dal 2004, la prende con filosofia: «Per fortuna ci sono ancora tanti ciclisti e motociclisti, chi ama la montagna arriva qui lo stesso – racconta –. Io vado avanti, resisto, anche se mi domando per quale motivo non sia stato fatto un ragionamento più ampio».

Dei risarcimenti, per dirla in breve, lui avrebbe fatto a meno: «Avrebbe avuto più senso investire soldi su tutto il territorio, concentrandosi su come portare più persone. Che poi sono guadagno per tutti, non solo per la montagna». C’è chi invece si è arreso e ha deciso di vendere, come Fabrizio Bertoletti, che di Stresa è stato vicesindaco per dieci anni e che è il proprietario (insieme alla sorella Antonella) dell’Hotel ristorante Eden: «Oltre cento anni di storia, mio nonno prima e mio padre poi che hanno tirato su questa struttura, e adesso mi tocca lasciare». Lo racconta con le lacrime agli occhi, guardando fuori dalla finestra la stazione di arrivo della funivia di là dal piazzale.

La chiama il “mausoleo” e un mausoleo davvero sembra, colorata e intatta nella facciata, non fosse per i cavi tranciati dietro e l’abisso della strage giù, sotto il primo pilone. Lì dove solo il piccolo Eitan è rimasto appeso alla vita. «Perché vendiamo? Perché non ce la facciamo, semplice – gli da manforte la moglie Angela, il sorriso stampato sulla faccia nonostante tutto –. La gente arriva, parcheggia, si spinge fin là sul ciglio, scatta la foto di rito, magari prega anche. Di certo non viene a mangiare». «E comunque – prosegue Bartoletti – quello che è successo è stata una botta dal punto di vista umano, prima che economico».
Alla nuova funivia che sarà – o meglio, che potrebbe essere, visto che il primo incontro di settimana scorsa dei sindaci col consulente per la ricostruzione nominato dal ministro del Turismo Massimo Garavaglia è stato interlocutorio – in cima al Mottarone non crede nessuno: «Non la faranno mai, e comunque noi non abbiamo tempo di aspettare» raccontano i coniugi, «la montagna nel frattempo muore». Qualcuno, al posto loro, forse troverà la speranza per ricominciare: «Perché è alla speranza che dobbiamo fare spazio adesso» insiste don Gian Luca.

Lunedì prossimo sarà qui a ripeterlo – nella chiesetta della Madonna della neve appena sopra l’Eden – ai parenti delle vittime che saliranno per ricordare i loro morti. Non si sa ancora quanti, visto che le famiglie si sono chiuse nel loro dolore immenso: niente comitati, niente interviste, «io sono stato contattato una volta su Fecebook dal fratello della coppia di origine calabrese – racconta Luca Nania, lo zio di Alessandro Merlo, il giovane di Varese morto con la fidanzata Silvia Malnati –, poi più niente». Luca accompagnerà la sorella Rosalba, mamma di Alessandro, per sostenerla «in un momento che ci sembra insuperabile da tanto è doloroso. Siamo una famiglia distrutta» confessa prima di chiudere una conversazione che, fino all’ultimo, non voleva. «A tutti loro chiederò di guardare alla croce che c’è in vetta – aggiunge ancora don Gian Luca –, la volle settant’anni fa Pio XII come “faro per i naviganti” ed è a questa luce che dobbiamo guardare tutti. Ce lo insegna la Pasqua, ce lo insegna Gesù risorto che si presenta con le ferite aperte. Come la nostra».

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