Bisogna cominciare a chiamare il problema con il suo nome: l’azzardo è una malattia, non un gioco. «E come tutte le malattie è democratica. Non fa differenze di sesso, condizione, credo e posizione sociale. Ai nostri incontri – spiega Gabriele, portavoce dell’associazione “Giocatori Anonimi” – si presentano idraulici e chirurghi, benzinai e calciatori, uomini e donne, cattolici e musulmani».I Giocatori Anonimi contano su una sessantina di sedi distribuite in tutta Italia, una presenza a macchia di leopardo più consistente in certe regioni – per esempio in Lombardia, Lazio, Piemonte, Emilia Romagna – che in altre. Gli incontri sono sempre affollati: «Nella sede che frequento io – racconta Gabriele mentre guida verso Tivoli – ci sono sette gruppi, uno al giorno in pratica, e ogni giorno abbiamo almeno un nuovo ingresso. Nel corso degli ultimi due mesi il nostri sito (
http://www.giocatorianonimi.org) ha avuto oltre 50 mila contatti». Il problema è in crescita e la malattia non perdona: «E non si può curare definitivamente. Nessuno di noi può considerarsi per sempre fuori pericolo: abbiamo imparato a vivere giorno per giorno, un’ora dopo l’altra. La prima cosa che i Giocatori Anonimi ti spiegano è che ieri e domani sono fuori dal tuo controllo. Mentre puoi controllare, e controllarti, oggi». Gabriele – che resta anonimo solo a metà – è stato un giocatore: «Ho cominciato a 17 anni, quando ero ancora a scuola. Io e un mio amico andavamo al bar a giocare con le slot machine, che ai tempi erano ancora illegali. Ma mentre il mio amico giocava e sapeva anche smettere, io continuavo, continuavo, continuavo... La malattia ha carattere ingravescente, peggiora con il passare del tempo, più si gioca e più si vorrebbe giocare». Per dodici anni non c’è stata tregua, poi è arrivata la svolta dei Giocatori Anonimi. Gabriele non gioca più da quattro anni ma è molto lontano dal sentirsi al sicuro: «Il recupero richiede uno sforzo continuo, un impegno che non concede tregua. Tanto più difficile per chi ha la mentalità del giocatore, gente che sforzi non ne vorrebbe mai fare, che non vuole scendere a compromessi, che non sa cosa sia l’umiltà. Il giocatore soffre di un conclamato delirio di onnipotenza. Convinto – riflette amaramente Gabriele – di poter smettere di giocare quando vuole. E ci si accorge sempre troppo tardi che è il gioco a controllare te, e non il contrario».Molti membri dei G.A. prima di decidersi a chiedere aiuto hanno lasciato che la loro vita andasse in pezzi: matrimoni falliti, carriere interrotte, finanze in rovina. Il percorso di recupero predisposto dall’associazione è il programma dei “dodici passi”, riproposto praticamente identico da tutte le fratellanze di auto-aiuto alle prese con le dipendenze: dalla droga ma anche dal cibo, dal fumo o dallo shopping compulsivo. Le associazioni di self-help hanno avuto una grandissima diffusione nel mondo a partire dagli anni Trenta del secolo scorso: strutturati in piccoli gruppi volontari, i componenti si riuniscono per assistersi reciprocamente al fine di risolvere un problema condiviso. «Si tratta di un percorso di crescita e di miglioramento personale. Una strada lunga e tutta in salita per chi, come il giocatore, preferisce le scorciatoie, pensando di poter ottenere il massimo con il minimo sforzo. E subito. Bisogna abituarsi allo sforzo diligente – prosegue Gabriele – e imparare le parole chiave del recupero. Onestà, apertura mentale e volontà».Della polemica sullo Stato biscazziere, l’ex giocatore non vuol sentir parlare: «Ho sempre scelto da solo di sedermi davanti alle slot machine o al tavolo da gioco, lo Stato non mi ha mai puntato una pistola alla tempia per costringermi. La pubblicità? Non mi tocca e non mi ha mai influenzato». Però ammette il valore della prevenzione: «Come Giocatori Anonimi organizziamo incontri nelle scuole, avviciniamo i ragazzi in classe e raccontiamo loro le nostre storie. Del resto – spiega – non mi dimenticherò mai la prima riunione con il gruppo, quando mi sentii a casa di fronte a gente mai vista né conosciuta prima. Fui subito uno di loro perché, sentendoli raccontare, mi sembrò che ciascuno parlasse di me e per me. Sentire di poter condividere la malattia, i problemi, le difficoltà fu una spinta potente per ricominciare».