lunedì 2 novembre 2009
Seicentomila euro. Una battaglia durata tre lustri. Ecco la storia della famiglia Stanca, che per 14 anni si è presa cura del papà Michele entrato in stato vegetativo in seguito a un incidente sul lavoro. L’indennizzo a metà tra l’impresa e il Comune. Finora la moglie Maria e il figlio lo hanno accudito in solitudine, abbandonati dalle istituzioni: «Dalla Asl dieci sedute di fisioterapia ogni sei mesi».
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Si stavano preparando a partire per la Spagna, quel giorno di luglio del 1996, lei, suo marito e il bambino, quando qualcuno le ha portato la notizia dal cantiere: Michele era precipitato dal tetto. Niente più Spagna, niente più vacanze. Niente più di niente, in senso letterale: «Sono quasi quattordici anni che mio marito è in stato vegetativo - racconta oggi Maria Stanca nella sua casa di Albiolo, nel Comasco - e sono quattordici anni che giorno e notte lo accudisco in tutto e per tutto, io sola con mio figlio. Da allora ho dovuto lasciare il lavoro e mi sono scordata di vivere, perché quando ti trovi in una situazione simile e non hai aiuti da nessuno, quando le istituzioni ti abbandonano e non c’è chi ti ascolta, devi sacrificare tutta te stessa e andare avanti come puoi, stringendo i denti».È indurita dalla vita, Maria, da un dolore che ha iniziato a sfibrarla quando aveva solo 29 anni, così oggi non ha né la forza né la voglia di trionfare, nonostante la vittoria appena riportata nelle aule di giustizia sia di quelle che fanno notizia: «Sì, abbiamo vinto, i giudici hanno stabilito che dobbiamo avere sui 600mila euro di risarcimento - riferisce con indifferenza -, metà da parte della ditta per cui mio marito lavorava come muratore, e metà dal Comune, che aveva appaltato i lavori». Un successo che chiude una battaglia durata quasi quattordici anni e passata attraverso tre palazzi di giustizia, con sentenze ribaltate e colpi di scena, ma del quale la donna fatica a provare sollievo: «Cosa vuole che le dica, quei soldi saranno finalmente un grande aiuto per le enormi spese da sostenere, ma io li sento "sporchi", non li vedo miei, non sono guadagnati... Ci vengono dati in cambio della salute di mio marito, e lui non me lo restituiranno più».Il caso di Michele Stanca, comunque, se non fa "notizia" dal punto di vista sanitario (è uno tra migliaia di stati vegetativi presenti in Italia, nei mesi passati più volte paragonato dalla stampa locale a Eluana Englaro), può costituire un importante precedente per le altre famiglie nella stessa condizione. La sua eccezionalità la spiegano gli avvocati da sempre al fianco di Maria Stanca, Fabio Visconti ed Edoardo Pacia (nipote di Enzo Pacia, il penalista che ha difeso i coniugi Olindo e Rosa Romano, rei confessi per la strage di Erba): «Prima del 2000 in caso di incidente sul lavoro l’Inail risarciva solo il danno patrimoniale, cioè la perdita dello stipendio, dando esclusivamente una rendita annua calcolata a seconda del grado di disabilità». Solo con la legge del 2000 si è passati a risarcire anche il danno alla salute, eppure - spiega Visconti - «noi l’abbiamo spuntata. Ora a Michele Stanca spettano 339mila euro, a sua moglie Maria 155mila, al figlio 75mila. Se si pensa che fino a oggi sono vissuti nell’assoluta mancanza di risorse, è il minimo. Già a primavera la ditta aveva accettato una transazione pur di uscire dal giudizio, ora tocca al Comune fare la sua parte».Il momento più drammatico la famiglia Stanca lo ha vissuto con il secondo grado di giudizio, quando la corte d’Appello di Milano ha ribaltato la sentenza di primo grado di Como (che aveva addossato tutta la responsabilità dell’accaduto al datore di lavoro), e ha applicato il principio del "rischio elettivo", sostenendo che il muratore si trovava su quel tetto per sua scelta, senza alcun motivo, per un "comportamento imprevedibile". «È stato tremendo, mi sono trovata a dover anche riscattare mio marito dall’accusa di essere uno "sventato", uno che a luglio, con 40 gradi di temperatura, durante l’orario di lavoro girava sul tetto per farsi una passeggiata», racconta oggi la moglie. Ci ha pensato poi la Cassazione, nel 2007, a impugnare la sentenza milanese, ritenendo che difettasse di logicità e congruità, e rimettendo il giudizio a un nuovo giudice, la corte d’Appello di Brescia. «Allora per la prima volta abbiamo trovato una grande umanità, quei magistrati sono stati i primi che hanno pensato a mio marito come a una persona: non un insieme di colpe, risarcimenti e percentuali di disabilità, una per-so-na», scandisce Maria.E intanto Michele è lì, su una speciale carrozzina, senza poter parlare né muovere un dito, completamente cieco, ma persona, appunto. E persona amata, ora come il primo giorno. «Ci siamo sposati che avevo solo 21 anni - sorride per la prima volta sua moglie -, a 29 me lo sono trovato così, come avere un bambino, e senza parenti che mi potessero dare una mano... Se non ci fossimo stati io e nostro figlio, sarebbe stato un uomo abbandonato». Le tappe sono le solite di questi casi: «All’inizio ti mandano un’infermiera e un fisioterapista, poi però scoprono che il paziente è "cronico" e anziché aumentargli le ore di assistenza gliele diminuiscono, un assurdo! La Asl ci ha attribuito dieci sedute di fisioterapia ogni sei mesi: nei primi venti giorni le avevamo già esaurite». Una elemosina cui Maria sceglie di rinunciare, per dignità. «Un giorno ho trovato un angelo vero, Cristina, l’amica fisioterapista che da 13 anni sta accanto a Michele e gli ha cambiato la vita». Peccato però che solo dal maggio 2009 la Asl gliela riconosca (due volte a settimana) quando Michele è in quello stato da quasi tre lustri...Tutti anni in cui Maria non ha mai smesso di instillargli la vita goccia a goccia, prima insegnandogli con infinita pazienza a deglutire («nei primi sette mesi non aveva più mangiato per bocca, solo col sondino, è stata durissima riabituarlo»), poi preparandogli sacche di cibo frullato in casa e facendoglielo cadere pian piano in bocca attraverso una siringa. «Certo, ci vogliono ore, solo la colazione va giù più veloce perché è solo latte, ma è giusto farlo». Infatti - lei ne è sicura - Michele "sente" di essere a casa sua, capisce cosa gli avviene attorno, ha persino trovato un suo modo di comunicare, labilissimo, ma inequivocabile: «Col tempo mi sono accorta che facendogli una domanda lui chiudeva le palpebre per dire sì, gli rifacevo la stessa domanda al contrario e le chiudeva due volte per dire no, ogni volta così, finché ho capito che non erano coincidenze, mi rispondeva proprio». Da quel 1996 altri segnali di vita non ci sono stati, fino all’anno scorso, quando Michele ha iniziato a sorridere: «Darei tutti quei soldi per entrare nella sua testa e sapere cosa pensa in quei momenti - sospira Maria -. Chi non vive a contatto con queste persone non sa quanto sono vive: capiscono quello che accade ma non possono comunicare».Ed è questa la vera tragedia, ciò che fa dire anche a Maria, nello sconforto, che «questa non è vita, non lo è la sua e nemmeno la mia», anche se subito si erge decisa: «Intendo dire che non si può abbandonare così le famiglie, ma sia chiaro, mai farei ciò che ha fatto Beppino Englaro. Sono convinta che quel padre, se avesse avuto la figlia accanto a sé giorno per giorno, avrebbe capito, sarebbe stato in grado di amare quella vita imperfetta. Io non riuscirei mai ad affidare Michele a una struttura, solo nelle ultime due estati dopo tanti anni mio figlio mi ha costretta ad andare quindici giorni al mare, ma io ho avuto tutto il tempo un macigno nel cuore, mi sembrava di averlo abbandonato... Quando il Signore lo vorrà, sarà lui a prendersi Michele, io intanto gli do tutto quello che ho perché si senta amato». In questi giorni Maria e Michele diventeranno nonni e allora lei gli appoggerà quel bimbo sul petto dandogli la bella notizia. «Ne sono certa, capirà».
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