Sulla tavola delle famiglie povere si trovano soprattutto pane, pasta e latte. Qualche volta un po' di carne, formaggio e uova, quasi mai il pesce. Del resto, con un budget mensile di 222,29 euro a disposizione, il carrello al supermercato è quasi sempre più vuoto che pieno. Questa “soglia di povertà alimentare”, che varia da regione a regione ed è realtà quotidiana per il 4,4% delle famiglie residenti in Italia ( pari a 1 milione e 50mila nuclei e a circa 3 milioni di persone) è stata presa a riferimento dalla ricerca sulla povertà alimentare nel nostro Paese, realizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà in collaborazione con docenti dell'Università cattolica e dell'Università Bicocca di Milano. Per la prima volta, a partire da un campione di famiglie povere selezionato tra il milione e mezzo di indigenti assistiti dagli oltre 8mila enti che fanno capo al Banco alimentare, si è cercato di leggere un fenomeno che riguarda soprattutto le famiglie del Sud e quelle che vivono ai margini delle grandi città. Il primo dato che viene evidenziato e che ha dato il titolo alla ricerca (“Poveri perchè soli”) è appunto la solitudine, analizzata da un duplice punto di vista. Come spiega il professor Luigi Campiglio, pro- rettore dell'Università Cattolica, che ha curato la ricerca insieme al sociologo dello stesso ateneo Giancarlo Rovati, c'è infatti la solitudine delle organizzazioni sociali che si occupano di povertà e quella delle stesse famiglie indigenti. « Le organizzazioni – aggiunge Campiglio – lamentano uno scarso, se non nullo coordinamento sul territorio, che ne limita fortemente la capacità di essere soggetti propositivi. La famiglia, che è sempre più ridotta e quindi meno forte, si trova a sua volta in difficoltà quando deve svolgere un ruolo di supplenza, che le viene richiesto da una società incapace di far fronte alle necessità dei suoi componenti più deboli » . Per il 59% delle persone intervistate, la caduta in povertà è provocata dalla perdita del lavoro, anche se avere un'occupazione non è più automati- camente garanzia di sicurezza per il futuro. Il 34,7% del campione dichiara infatti di avere un posto stabile ( 21,8%) oppure di essere occupato saltuariamente ( 12,9%). E questo vale ancora di più per gli stranieri: il 34,5% degli immigrati poveri ha infatti un'occupazione stabile e il 13,8% ha un lavoro saltuario. « Non basta avere un lavoro, ma è anche necessario avere una retribuzione dignitosa » , chiosa Campiglio che, a questo riguardo, ricorda come sia ancora molto forte il divario tra il Nord e il Sud del Paese, dove le famiglie sotto la soglia di povertà alimentare sono più numerose. E la differenza, con le famiglie non povere, si vede nel piatto. Se la soglia minima sotto la quale scatta la povertà alimentare è, per una famiglia di due persone, 222,29 euro di spesa media al mese, le famiglie del campione spendono ancora meno: 154,70 euro al mese, contro i 523,81 euro dei nuclei non alimentarmente povere. Per la pasta, per esempio, i poveri spendono 28,85 euro al mese contro i 62,86 euro dei benestanti, mentre per la carne il divario è ancora maggiore: 35,05 euro contro 99,88 euro. I poveri non pranzano quasi mai fuori casa: in un mese spendono appena 6,53 euro per il “ristorante” contro gli 80,02 euro dei nuclei non indigenti. « Le famiglie a basso reddito – riprende il professor Campiglio – spendono almeno il 70% delle proprie entrate mensili per gli alimenti e per pagare l'affitto della casa. Per il resto, rimane davvero molto poco, come abbiamo potuto verificare con questo lavoro » . Così, alla domanda su che cosa acquisterebbe se avesse la disponibilità di mille euro al mese, il 40,6% del campione ha risposto mettendo allo stesso livello le “cure mediche”, in particolare quelle relative alla salute dentale e gli “alimentari di qualità”. Il 58,4% ha invece risposto “altro”, che, come specifica Campiglio, significa soprattutto “scarpe e vestiti”. Tutto quanto serve, insomma, per condurre una vita dignitosa. Una condizione che, troppo spesso, alle famiglie povere è negata.