
Un murale dedicato a Falcone e Borsellino - Ansa
C’era un ragazzo quasi smarrito, come tanti altri, a Palermo. Voleva lasciare la scuola, conquistata a fatica, per vendere sigarette di contrabbando, nei dintorni di un semaforo. Un sacerdote risoluto, uno di quelli che si sbracciano per pescare esistenze nelle zone d’ombra, lo ha scosso. «Gli ho detto che poteva scordarsi la mia faccia – spiega don Ugo – se abbandonava gli studi. Gli ho gridato che sarebbe stato un tradimento… Per fortuna, ha cambiato idea, si è diplomato e adesso lavora onestamente».
Don Ugo Di Marzo, parroco di Maria Santissima delle Grazie in Roccella e di San Marco allo Sperone, vive la sua missione di pastore in un quartiere problematico, sede di una delle più proficue piazze di spaccio, e conosce perfettamente i ragazzi in bilico descritti dal procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia. Sono loro la potenziale e futura manovalanza delle cosche. Il magistrato, in calce all’ultimo maxi-blitz di mafia, con più di centottanta provvedimenti, tra fermi e arresti, ha lanciato un allarme significativo. «Cosa nostra – ha detto de Lucia – continua a esercitare il suo fascino in certi ambienti come le borgate in cui i giovani hanno alternative di vita limitate e si identificano in rappresentazioni di potenza di cui ancora gode la mafia».
Una fascinazione perversa a cui si oppongono i sacerdoti immersi nel territorio, come don Ugo. Questa, infatti, è la cronaca di una speranza, nonostante tutto. Il resoconto di una battaglia combattuta con le armi incruente della fede e del sorriso, lì dove è più duro salvare chi rischia di perdersi. Una sfida da cui dipendono moltissimi esiti. «Più che la suggestione – dice don Di Marzo – la mafia offre soldi, con varie opzioni criminali: dallo spaccio, al pestaggio al pizzo. Noi cerchiamo di fare l’impossibile. Stiamo attivando borse di studio con l’Università Lumsa. Altre borse di studio con le scuole superiori, per settanta giovani, hanno dato ottimi risultati. La parrocchia è continuamente aperta. Ma ci vuole più attenzione da parte di tutti per creare condizioni migliori».
L’opera quotidiana per chi agisce da antidoto al cancro mafioso non conosce sosta. «Le periferie sono spesso abbandonate, senza prevenzione. Però, negli ultimi tempi, ci sono segnali incoraggianti», incalza padre Antonio Garau, parroco di San Paolo Apostolo, a Borgo Nuovo, altro quartiere periferico con mille problemi. Qualche giorno fa, proprio in parrocchia, è stato presentato un piano di rigenerazione, calibrato sul cosiddetto "modello Caivano". «Mi sembra una circostanza degna di nota – dice padre Garau –. Tuttavia, oltre alle strutture, servono progetti per sostenere bambini e ragazzi nei percorsi di legalità. Il fascino della mafia, di cui giustamente parla il procuratore, è soprattutto concreto. Cosa nostra governa lo spaccio. In cambio, offre soldi e dosi a giovanissimi pusher. Da anni chiedo che il servizio civile venga svolto anche nelle periferie. Sarebbe un modo intelligente per dare una mano».
Resiste, a prescindere dalla buona volontà, il richiamo di miti negativi. Fra’ Loris D’Alessandro, cappellano del carcere Pagliarelli, sottolinea il meccanismo di una infausta seduzione. «Ricordo – dice – che quando veniva trasmessa la serie su Totò Riina tanti ragazzini delle borgate si identificavano nel cosiddetto capo dei capi, come se fosse stato un eroe e non un boss sanguinario. Oggi, c’è molta paura tra le famiglie che sopravvivono in contesti complicati. C’è come una cappa, per cui non è semplice ribellarsi e alzare la testa. L’allarme del procuratore mi sembra attuale».
Fra’ Loris è nato allo Zen di Palermo, periferia notissima, cittadella di degrado e di speranza, in un miscuglio inestricabile. «Tanti miei coetanei – racconta – erano attratti dal mito della mafia e le brutte occasioni non mancavano. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia in grado di insegnarmi i valori. Poi, l’incontro con padre Garau, quando era allo Zen, ha contribuito alla scoperta della mia vocazione». Nelle sezioni del Pagliarelli, in cella, succede al ragazzo diventato frate di ritrovare vecchi amici, compagni di partite a pallone giocate nei vicoli, tra sassi e polvere. «Provo molta pena e rabbia – dice Loris – perché hanno compiuto la scelta sbagliata e si sono persi. Dopo non si può tornare indietro».