Ricevevano appena 50 centesimi per ogni cassetta di agrumi raccolti. Ma quasi la metà finiva in tasca ai "caporali". A cinque anni dalla rivolta dei migranti di Rosarno (7 gennaio 2010), quando i lavoratori africani scesero in piazza, anche violentemente, contro lo sfruttamento e la violenza della ’ndrangheta, nulla o quasi è cambiato nella Piana di Gioia Tauro, come ha confermato l’operazione "Confine" dei Carabinieri coordinati dalla procura di Palmi. Dodici ore di lavoro al giorno per poco più di 10 euro, il resto nelle tasche dell’organizzazione che all’alba, su scassati furgoni, li caricava per portarli sui terreni di imprenditori agricoli compiacenti. Lavoro nero e doppio sfruttamento, del datore di lavoro e dei caporali, in gran parte italiani. Sono così finiti agli arresti domiciliari Davide Madaffari, il cugino Alessandro Madaffari, Salvatore Di Bartolo, Giuseppe Ravalli, Vincenzo Consiglio, tutti di Rosarno, e Mohammed Keita del Mali e Filip Kuzev della Bulgaria che li coadiuvavano nell’’"affare". Caporali, intermediari e imprenditori agricoli, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla intermediazione illecita e allo sfruttamento del lavoro, reclutamento di manodopera clandestina di lavoratori extracomunitari, violazione della normativa previdenziale e truffa aggravata ai danni di enti pubblici.«Una totale mancanza di etica, assoluto cinismo, sulla pelle di tanta povera gente – commenta il procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza –. Un fenomeno gravissimo ma quello che abbiamo colpito è solo la punta dell’iceberg. E purtroppo noi riusciamo a intervenire solo dopo, nella fase patologica, mentre sarebbe necessario intervenire prima, con controlli e prevenzione sul settore agricolo». Un lavoro difficile, durato mesi, quello dei militari della compagnia di Gioia Tauro per scoprire lo sfruttamento dei migranti africani e dell’est Europa. «Dobbiamo essere orgogliosi, sono stati bravissimi, hanno fatto molti sacrifici, con appostamenti anche sotto la pioggia – sottolinea il procuratore –, perché solo così era possibile accertare il trattamento dei lavoratori». Che, infatti, erano costretti a lavorare con ogni condizione di tempo, per poi comunque lasciare ai "caporali" una grossa fetta di quanto così duramente guadagnato: tre euro al giorno per il trasporto, oltre alla benzina. Una sorta di "tassa di sfruttamento". E lavorando dall’alba fin dopo il tramonto, anche al buio. Ovviamente senza alcun riposo settimanale, né abbigliamento protettivo (chi poteva se lo pagava da solo). Chi non accettava queste condizioni e si ribellava, non veniva più chiamato: niente lavoro.Una vera e propria organizzazione, tra proprietari di aziende agricole e intermediari. E infatti, oltre agli arresti, l’inchiesta ha portato al sequestro di beni immobili, tra i quali la "Apo Calabria, società cooperativa agricola", e dei mezzi usati per il trasporto dei migranti sui campi. «Non dobbiamo mai dimenticare – è l’amara riflessione del procuratore – i nostri doveri di solidarietà e accoglienza, in un momento in cui questo "esodo" quasi biblico per molti profili divide il Paese. Dobbiamo ricordarci che queste operazioni servono a reprimere un fenomeno che non fa assolutamente onore all’Italia, che fa affari sullo sfruttamento di questi nostri fratelli». Ma il magistrato ci tiene a sottolineare l’importanza delle norme che combattano il "caporalato". «Il fatto stesso di prevedere una fattispecie particolare, l’articolo 630 bis, che punisce queste forme di intermediazione parassitaria per lo sfruttamento del lavoro, è un fatto che fa onore a una legislazione che è ispirata a sentimenti di fraternità e accoglienza».