«Oggi perdo un amico». Monsignor Vincenzo Paglia con Cossiga ha condiviso 21 anni di cammino. Un sacerdote e «un grande credente», dice ricordando un episodio-chiave: «Aveva da poco lasciato il Quirinale – rievoca l’attuale vescovo di Terni con la voce commossa, dopo aver lasciato il Gemelli – e io lo accompagnai in un viaggio negli Usa, dov’era stato invitato dalla Columbia. Una mattina mi chiamò alle 5 di notte: mi chiese di andare nella sua camera perché mi doveva dire "una cosa importante per lui". Fu lì che mi chiese di essere il suo confessore, perché era morto quello precedente, un rosminiano irlandese». Da quel giorno mons. Paglia e Cossiga si sono visti almeno una volta a settimana. L’ultima lunedì, quando il prelato gli ha portato un rosario («Lo diceva spesso») proveniente da Gerusalemme, lo stesso che ieri è stato messo fra le mani del Presidente, nella bara.
Come nacque il rapporto?Era l’estate ’89. Era morto Jerry Masslo, un sud africano ucciso da criminali a Villa Literno. Masslo era assistito dalla Comunità di S. Egidio e Cossiga ci mandò un telegramma. Io contattai il Quirinale per ringraziarlo. Lui mi invitò, poi chiese di venire in Comunità. Fino a scegliere di fatto la nostra chiesa, S. Maria in Trastevere, per la sua messa. Veniva ogni domenica alle 10 e 30, con il suo vezzo di farsi notare: entrava con tutta la scorta, ma poi amava mettersi tra i fedeli.
Cossiga e la fede. Che rapporto era?Aveva una fede profonda, severa, fatta anche di pratiche. Non faceva mai la Comunione senza essersi confessato, non amava le liturgie troppo lunghe. Era, la sua, una concezione agonica, quasi drammatica del cristianesimo. Mi diceva di ritenersi "un cristiano peccatore, un cattolico liberale, un politico appassionato". Aveva dei tratti giansenisti e agostiniani. Ha sempre vissuto come un travaglio continuo il suo impegno in politica, dimensione che riteneva autonoma dalla fede, ma al contempo legata. Attribuiva però alla coscienza ispirata dalla fede e dal magistero un primato rispetto alla politica. Non a caso aveva una grande cultura, imbevuta di Tommaso Moro, Newman e Rosmini, che era anche canonistica e teologica. Da qui la sua grande amicizia con Ratzinger, già quand’era cardinale, un suo antenato era pure stato professore in Germania dell’attuale Papa. Ricordava poi le gite in montagna con Wojtyla, quando mangiarono una mela senza posate.
Di cosa parlavate?Del suo privato, della Chiesa, di politica. Ricordo che nell’89, davanti alla caduta del Muro di Berlino, aveva capito che stava finendo la prima Repubblica. Disse che la Dc doveva ripensare il suo modo di essere presente, cosa che non fece. Il caso Moro? Disse che fu il suo dramma più lacerante, che lo trasformò anche fisicamente. Ma della politica oggi non amava parlare, da un anno diceva che doveva prepararsi alla morte.
Una personalità complessa?Amava il paradosso. Capiva che aveva a volte un modo esagerato di dire le cose, quelle che a lui parevano le più importanti. Ma sapeva anche ridere di sè: diceva spesso "sono il più intelligente, ma sono un pover’uomo".