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Davide Garufi morto suicida a Sesto San Giovanni, in u fermo immagine di un suo video su TikTok - ANSA
La morte di Andrea Prospero, la tragica vicenda che coinvolge drammaticamente altri ragazzi, il velo squarciato su certi abissi giovanili del tutto fuori dalle rotte della percezione del mondo adulto, come tutti credo, mi ha colpito profondamente e dolorosamente, mi accompagna da giorni, come padre e come insegnante.
Nel pudore dovuto e che ognuno dovrebbe adoperare nelle parole quando accostiamo tali tragedie, mi tornano continuamente in mente non tanto quelle diffuse degli scambi terribili in chat degli ultimi istanti, in preda al male degli altri disperati protagonisti del dramma, quanto alcune confidenze di Andrea sul proprio disagio rintoccate sui giornali, che raccontavano la difficoltà di ambientarsi nel nuovo mondo universitario, l’accettazione del proprio corpo, l’istinto all’isolamento.
Mi hanno colpito profondamente perché dicono una fragilità diffusa e forse ineludibile in quella complicata età del transito, ma che, come padre e soprattutto come docente, avverto quanto mai dilagata in un mondo giovanile che sconta, spesso senza fare rumore, il disastro di un mondo che ha santificato il culto violento del primato, dell’apparire, del possesso.
In modo del tutto casuale, nei giorni in cui sono emersi i primi dati significativi sul gesto di Andrea, mi sono ritrovato una mattina a scuola ad avere in programma il commento del Canto XIII dell’Inferno, quello di Pier delle Vigne, quello delle ragioni contorte e indicibili della selva dei suicidi in una classe, e il commento dell’Ultimo canto di Saffo in un’altra classe, quello in cui ci si chiede per quale colpa mai il cielo ci è così nemico in certe fragilità, lasciando a quel «morremo» l’unica tragica via per emendare il «crudo fallo».
In tanti anni di scuola, ogni volta che mi è capitato di portare in classe l’indicibile, - ché la letteratura, quella vera, non è mai docile, e ci chiama continuamente a severi confronti con il senso - non ho mai concesso niente alla dissimulazione e ho fatto di tutto perché le parole di quei grandi arrivassero nella loro integrità. Ma questa volta, nei giorni della diffusione delle notizie sugli ultimi istanti di Andrea, ma anche della tragica scomparsa a 21 anni di Davide Alexandra Garufi (anche in questo caso è stato aperto un fascicolo per istigazione al suicidio), non sono riuscito a fare altrettanto, nonostante non abbia rinunciato alla lettura e al commento di quei due canti, quello di Dante e quello di Leopardi. Sì, leggevo, ma sentivo il peso dell’indicibile di quelle parole come pesi troppo grandi da caricare sulle fragilità dei miei alunni, che ci sono, sono silenziose, sono tante.
Una parte di me, la mia coscienza, ovviamente mi ribadiva che è proprio quella la cura che la letteratura sa offrire nell’educare, accostarci all’indicibile attraverso una parola satura dell’umano e quindi del suo riconoscimento salvifico. Eppure, a fronte di questi tempi, di queste solitudini ghermite continuamente dalla disumanizzazione di un mondo in cui i nostri giovani sono le prime silenziose vittime, quella mattina ho fatto un passo indietro, ho avuto paura di non essere sufficientemente forte pur sentendo, mai come in quel momento, la necessità assoluta da adulto, da educatore, di stare lì, di continuare a stare lì con loro.