Era difficile pensare che il passaggio del Gay Pride a Pompei non allungasse la scia di polemiche alimentata al momento stesso dell’annuncio. Pensare al Santuario della Vergine del Rosario, uno dei luoghi simbolo non solo nel Mezzogiorno e in Italia, ma nel mondo, della fede semplice eppure profonda del popolo del Rosario, attraversato da cortei di altro tono, rappresentava di per sé un segno di forte inquietudine. Il termine più corrente, e che veniva subito alle mente, era quello di “provocazione”, pur considerando che la scelta del luogo è affare che riguarda organismi ed enti locali civili, e che certo neppure la Prelatura di Pompei avrebbe potuto opporsi allo svolgimento della manifestazione.
Fissato in calendario, il raduno regionale di Pompei si è riempito via via di un’attesa sempre crescente, con al centro l’elemento determinante di una sfida frontale, portata volutamente all’estremo e dalla quale, per gli organizzatori, si profilava la possibilità di poter trarre una qualche forma di significativo “riconoscimento”. L’intendimento era chiaro: “espugnare” Pompei, invadere un campo considerato ostile, ma proprio per questo esemplare per spingere a fondo una battaglia da esportare fin nel cuore, starei per dire nei “santuari”, dove la verifica dei valori si spinge oltre la soglia del politically correct o di una forma di neutrale accettazione.
In questo senso, il Pride a Pompei è franato da solo. Da solo ha innalzato davanti a sé quei ponti levatoi che, pur avvicinandolo fisicamente al Santuario, lo hanno tenuto lontano e distante, come parte di un mondo che rivendica per sé un rispetto – pur sempre legittimo – che non è in grado di assicurare e restituire a sua volta. “Rispetto” aveva chiesto la Chiesa di Pompei, non solo dall’alto della sua storia di città di fede, di carità e cultura, ma alla luce della sua cronaca di giorni fatti, uno per uno, di solidarietà, di accoglienza, di bando a ogni forma di discriminazione. Su questo piano, nei confronti di tutti gli organismi civili, a partire dalla Casa comunale, ha quantomeno il privilegio del marchio di origine. È stato in tutti i sensi il Santuario la prima pietra della “Nuova Pompei”. Anche nel suo paesaggio urbano la città di Bartolo Longo è come un racconto sempre vivo e aggiornato delle Opere del suo fondatore. Chi ha appena una qualche dimestichezza con questa storia, può capire cosa significhi rispetto, e quanto questa parola sia più eloquente di mille discorsi. Chiedere, come ha fatto il vescovo Tommaso Caputo, in una nota diffusa alla vigilia della manifestazione, «il rispetto delle convinzioni dei credenti» e formulare l’auspicio di «gesti e modalità adeguati alla natura della città», rappresentava, allo stesso tempo, nel linguaggio di Pompei, il massimo della fiducia e il massimo dei timori perché la provocazione prendesse concretamente corpo. Soprattutto se tutto questo faceva corona a due affermazioni di Papa Francesco nell’Amoris laetitia, sulla «necessità di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione» e sul chiarimento che «la famiglia umana come immagine di Dio, uomo e donna, è una sola».
Il timore della provocazione si è infine concretizzato. Le modalità sono facili da immaginare. Ma non è mancata l’audacia, o il cattivo gusto, di spingersi ancora oltre varcando i confini del dileggio e dell’insulto. Lungo un percorso che, a un tratto, ha puntato diritto – non si sa con quale autorizzazione – verso il Santuario, canti, cori e slogan blasfemi hanno accompagnato i passi di un corteo senza decenza, più sguaiato che pittoresco. Una brutta pagina. Ancora peggio: un’occasione mancata, perché non può essere da questa strada che è possibile rivendicare diritti.