Nessuno si aspetta che dal vertice di oggi tra la premier Meloni e i leader di opposizione venga fuori una proposta condivisa sul salario minimo. Ed è legittimo che i due poli che si confrontano mantengano, al termine dell’incontro, le proprie “ricette”. Meno legittimo, invece, sarebbe trasformare il tavolo di Palazzo Chigi in un set cinematografico in cui ciascuno dei leader si limiti a recitare un copione.
Il tema messo al centro del confronto, il lavoro povero, la fatica di decine di migliaia di persone che ricevono un salario sotto la soglia di dignità, richiede un atteggiamento maturo che renda il dialogo, se non proficuo, almeno sincero. Le premesse non sono positive: negli ultimi giorni ciascuno ha scavato la propria trincea.
Ha iniziato Elly Schlein annunciando che il colloquio avrebbe riguardato anche temi diversi dal salario minimo e molto più divisivi, come la strage di Bologna.
Ha proseguito la presidente del Consiglio ribadendo che, in ogni caso, a prescindere dal merito della proposta delle opposizioni, per lei il salario minimo non è una risposta adeguata alla sfida.
E mentre Conte fa professione di scetticismo preventivo, Calenda al contrario forse eccede in ottimismo. Anche i due vicepremier Salvini e Tajani si sono ritagliati il loro ruolo da guardiani del programma di centrodestra.
Ciascuno comodo nel proprio abito, sinora. Ciascuno in attesa di declamare la propria battuta efficace, per poi riprendere, dopo il curioso evento multipartisan agostano, con la consueta tattica elettorale. Perché non sia davvero la «passerella» che i protagonisti si rinfacciano l’un l’altro ancora prima di incontrarsi, occorrerebbe allontanare la tentazione della vetrina e mostrarsi consapevoli che momenti del genere sono un test sul significato autentico della leadership.