Paola and Claudio Regeni, i genitori del ricercatore torturato e ucciso al Cairo nel 2016, arrivano all'aula bunker di Rebibbia per la prima udienza del processo - Reuters
Arriva a tarda sera, la decisione dei giudici della Terza Corte d’Assise di Roma. E, come in una sorta di logorante "gioco dell’oca" giudiziario, annulla il processo in contumacia, iniziato appena ieri, ai presunti torturatori egiziani del ricercatore italiano Giulio Regeni, sequestrato al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato senza vita il 3 febbraio, con segni di brutali torture. Dopo sei ore di camera di consiglio, i giudici hanno deciso di accogliere le argomentazioni dei difensori d’ufficio, annullando il decreto che disponeva l’avvio del procedimento e rispedendo gli atti al giudice per l’udienza preliminare.
La Corte era chiamata a sciogliere il nodo cruciale dell’assenza in aula dei quattro 007 egiziani, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e in lesioni personali aggravate: il generale Sabir Tariq e i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Per i giudici, non si può essere certi «dell’effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento».
E dunque ora la procedura ripartirà dal gup, finalizzata, se possibile, all’ulteriore ricerca dei quattro 007 egiziani, ai quali notificare le accuse. «Prendiamo atto con amarezza della decisione della corte d’Assise che premia la prepotenza egiziana – è il commento di Alessandra Ballerini, legale della famiglia Reggeni –. È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo».
Battaglia procedurale. Secondo la Procura gli imputati si sono sottratti volontariamente al processo, mentre le difese hanno chiesto la «nullità del decreto che dispone il giudizio e della notifica e sospensione del procedimento». Per il pm Sergio Colaiocco, la rilevanza politica e mediatica del caso ha reso il procedimento un «fatto notorio», posizione condivisa dal gup che aveva mandato a giudizio i 4. Secondo il pm gli imputati, insieme ad altri agenti egiziani, dal 2016 hanno cercato di «bloccare, rallentare le indagini ed evitare che il processo avesse luogo in Italia. È stata una volontaria sottrazione, vogliono fuggire dal processo. Sono finti inconsapevoli». Su 64 rogatorie inviate al Cairo, «39 non hanno avuto risposta» e, per quella cortina fumogena, il processo non si basa su evidenze schiaccianti: «Non abbiamo una prova regina, un’intercettazione telefonica – ha detto Colaiocco –. Ma ci sono almeno 13 elementi dal 2016 a oggi che, se messi insieme, fanno emergere che gli agenti si sono volontariamente sottratti al processo». Dal canto loro, i legali d’ufficio degli egiziani (che, va da sé, non ne hanno nominati di propri) hanno insistito: «Non c’è alcun atto formale materialmente portato a conoscenza» degli accusati e «questo non è il processo contro 4 imputati, ma contro l’Egitto».
Richiesta di verità. Rintracciando faticosamente 8 testimoni, la procura ha cercato di ricostruire quanto avvenuto fra gennaio e febbraio 2016, senza alcuna collaborazione del Cairo. I legali di parte civile hanno elencato clamorosi depistaggi: dal finto movente omosessuale, all’uccisione della presunta banda di rapinatori dello studioso italiano, fino a un film «diffamatorio» andato in onda sui media egiziani. Oltre ai familiari del giovane ricercatore ucciso, nel processo si è costituita parte civile la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Nella lista dei testimoni depositata, i legali della famiglia Regeni hanno chiesto di ascoltare i presidenti del Consiglio degli ultimi 5 anni (Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e Mario Draghi), ma anche i ministri degli Esteri e i sottosegretari con delega ai servizi segreti. «Dopo cinque anni e mezzo di faticosa battaglia, vogliamo un processo, ma che sia regolare... Siamo qui per proteggere la verità», avevano detto in mattinata Alessandra Ballerini e Francesco Romeo, legali della famiglia di Giulio Regeni, facendo vibrare l’aria stantia nell’aula bunker di Rebibbia. In aula c’erano i suoi genitori Paola e Claudio e la sorella Irene. E l’avvocatessa Ballerini ha ricordato i fatti: a Giulio «sono stati fratturati denti e ossa, incise lettere sul corpo ed è morto per torsione del collo». Un orrore che non può restare senza colpevoli.