venerdì 9 dicembre 2011
Il cambio di mentalità degli ultimi anni si vede. Per i giovani industriali il presupposto da cui partire, come diceva Falcone, è che sottostare al racket non è un atto innocente, perché significa riconoscere l’autorità mafiosa. Il passo successivo è stato cacciare da Confindustria Sicilia chi non si ribellava alle pressioni di Cosa nostra. 
COMMENTA E CONDIVIDI
Occorreva prima di tutto definire i campi: qui loro, gente perbene, lì i caproni, poiché definirli semplicemente mafiosi, evidentemente, non avrebbe reso l’idea. Dovendo tracciare una linea netta tra i due mondi siciliani pure le parole hanno la loro importanza. La "primavera siciliana" degli imprenditori in cinque anni non ha costruito ponti o altri visibili manufatti, ma una mentalità che si è diffusa, varcando comunque lo Stretto, in altre regioni italiane. Antonello Montante, Marco Venturi, Massimo Romano, Rosario Amarù, e poi se ne sono aggiunti altri, hanno fatto capire che denunciare il pizzo imposto dai caproni conviene e che la legalità fa guadagnare. Facile a dirsi, meno facile a farlo valere in Sicilia quando buona fetta dell’imprenditoria (vedi ad esempio le vicende giudiziarie di Pietro Di Vincenzo, a capo della Confindustria di Caltanissetta prima che finisse in galera) era legata a filo doppio con i caproni di ogni specie.La lotta di questi giovani industriali è lunga e complessa. I nemici contro cui si son trovati a combattere non erano soltanto i caproni di fuori, ma gente del loro mondo che con questi individui avevano stretto patti. Questa storia che è contrappuntata da minacce e da attentati è stata di recente raccontata da Filippo Astone in Senza Padrini edito da Tea, al quale Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, dichiara a mo’ di bilancio: «La nostra iniziativa più importante consiste proprio nel rompere il rapporto mafia e imprenditorialità. Vogliamo spezzare il muro di omertà e complicità che rende la mafia un attore sociale ed economico».Loro partivano da un presupposto (Giovanni Falcone aveva detto le stesse cose in quello che sarà il suo testamento spirituale, il libro intervista Cose di Cosa Nostra): pagare il pizzo non è un atto innocente perché implica, nella migliore delle ipotesi, il riconoscimento dell’autorità mafiosa. I quattro giovani della "primavera seciliana" aggiungono un’altra convinzione: la paura non giustifica sottostare alle pretese dei mafiosi. E così, cinque anni fa nasce l’idea di espellere da Confindustria quegli imprenditori che non denunciano le pressioni mafiose. Ed è una rivoluzione, appena qualche anno prima impensabile, che Sicilindustria si sia dotata di un codice etico nel quale è scritto tra l’altro: «Le aziende associate riconoscono fra i valori fondamentali della Confindustria Sicilia il rifiuto di ogni rapporto con le organizzazioni criminali».Il bilancio è al tempo stesso amaro e confortante, perché - come ha sempre sostenuto Lo Bello - «l’espulsione non è una vittoria. Una vittoria è il numero delle denunce», come tanti hanno fatto. Il modello siciliano è stato esportato fuori dall’Isola e ha avuto la sottoscrizione di Confindustria nazionale, di Emma Marcegaglia, in particolare. Il numero maggiore di espulsioni lo registra Agrigento. Nel 2009 sono state depennate nove aziende. Agrigento è emblematica perché (come nel caso di Calcestruzzi Belice) imprenditoria e mafia sono una sola cosa. L’intreccio è spiegato da Mario Centorrino, tra i più acuti interpreti dell’economia siciliana. Il metodo dell’impresa mafiosa consiste nella creazione di un ombrello protezionistico intorno al mercato di pertinenza dell’impresa stessa, attraverso lo scoraggiamento della concorrenza. Per esempio, le offerte dei membri di un cartello sono sempre più alte e in ogni caso sconvenienti, così che vinca per forza l’impresa mafiosa che poi, in altre gare, si sdebiterà ricambiando il favore. In tutte le altre province siciliane sono state decise espulsioni. E la determinazione è stata tanto forte che a Messina alcuni imprenditori hanno preferito dimettersi prima che fossero colpiti dal provvedimento. Confindustria Campania e Calabria, successivamente, hanno adottato il metodo siciliano, e il codice etico è stato fatto proprio da Assolombarda. Il vento siciliano si ferma qui? Pare di no. «La lotta alla criminalità - ebbe a dire Antonello Montante al Parlamento europeo agli inizi di quest’anno - non può limitarsi più a una questione nazionale: è diventata una questione europea». La lotta alla criminalità, spiegò, non è solo una scelta morale, ma anche di convenienza economica. Volle anche dire, invocando maggiori misure repressive, che i caproni non sono più una razza tutta siciliana.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: