Pino Trimboli nelle cucine del suo ristorante a Martone, in Calabria - .
Il 18 aprile è iniziato il processo agli estorsori di Pino Trimboli, ristoratore e imprenditore agricolo di Martone, piccolo paese dell’interno della Locride di appena 500 abitanti (erano più di duemila 70 anni fa). Gli avevano chiesto 50mila euro minacciandolo: «Se non paghi sei morto. Ti bruciamo il ristorante, i figli e tutti i tuoi». «Ma io non ho avuto esitazione, ho denunciato – racconta con convinzione –. Ho capito che dovevo chiudere la mia attività oppure chiedere la loro protezione e diventare schiavo. Non mi sono arreso. Certo ho avuto paura, ma non si deve essere sovrastati da questa paura. Io avrei più paura a piegare la testa davanti a chi ci vuole togliere la libertà. Ho scelto e continuo a scegliere di lavorare nella mia terra, che amo, mentre la ‘ndrangheta la odia la Calabria». E la gente ha capito. Pino ha detto a tutti delle minacce, tutta Martone è andata a presidiare il ristorante. Addirittura la processione della festa patronale ha fatto sosta lì, quando in passato (purtroppo non poche volte) le processioni si erano fermate davanti alle case dei mafiosi, per il famoso “inchino”. Ma ora tutto è cambiato, perché Pino resiste.
La sua è davvero una vita di resistenza. Alla malattia, alla povertà, alle lusinghe giovanili, alla violenza mafiosa. Fin dalla nascita. Oggi ha 49 anni, sposato con Lucia accanto a lui anche nel lavoro, con quattro figli. Ma la storia comincia più lontano, in una famiglia poverissima, il papà emigrato, Pino che alla nascita rischia di morire, salvandosi con una gravissima malformazione al nervo ottico che lo mette a rischio cecità. Per un anno tenta anche lui la fortuna in America. Quando torna il padre gli dice «“se vuoi restare devi lavorare”. Lo faceva per tenermi lontano da cattive amicizie». Così il lavoro fa resistere Pino dal prendere brutte strade. Va a fare il cameriere in un albergo sulla costa. E lì capisce che è la cucina la sua passione: nel 1998 apre il ristorante “La collinetta”, «dove si mangia come a casa mia». E infatti a lungo in cucina c’è la mamma Rosa. Prodotti della sua azienda agricola biologica o di altre garantite, piatti della tradizione calabrese ma con qualche sperimentazione, una stupenda cantina. È un successo. Dal 2000 è nella guida delle migliori trattorie di Slow Food, ottenendo anche la “Chiocciola d’oro” che rappresenta il top.
La trattoria è sempre piena, tante famiglie e giovani. Dà lavoro a 13 persone, tra i quali immigrati e disabili. Ovviamente la ‘ndrangheta si fa avanti. Prima con proprie imprese. «Si offrivano per fare lavori. Era “pizzo” indiretto». Pino rifiuta, resiste e fa altre scelte molto nette. Nel 2007 aderisce al Consorzio Goel, la rete di cooperative sociali nata col vescovo Giancarlo Bregantini, che promuove economia pulita, occupazione, legalità, solidarietà contrastando proprio il potere della ‘ndrangheta. E le cosche stavolta reagiscono: «Vediamo se ti minacciamo, chi ti protegge». Lui alza le spalle e ricorda sempre quando da ragazzo stava sulla piazza a una bancarella con un amico: «Passa il boss e gli chiede “A chi hai dato conto per la bancarella?”. Il mio amico risponde: “Sono andato al Comune e ho pagato la tassa. Volete qualcosa?”. “Non mi piace niente”. “Allora andate via, sta uscendo il Santo dalla chiesa”». Il mafioso sputa per terra e se ne va, l’amico dice a Pino: «Se hai paura sei già morto, si muore una volta sola». Quelle stesse parole Pino le sente dire da Borsellino anni dopo e capisce che la libertà non ha prezzo. Così lui non si ferma: collabora con la Caritas per inserire nel lavoro persone svantaggiate, con l’associazione “I Girasoli” di Martone per sostenere sempre col lavoro le famiglie con disabili. E poi i due progetti “Frutto della nostra terra” e “Terra dei primi”, nei quali gli anziani insegnano ai disabili a lavorare la terra e producono erbe aromatiche e officinali, che finiscono poi nei piatti del ristorante. Pino, e tanti suoi amici, resistono alla ‘ndrangheta e cambiano la Calabria.