Si allarga a macchia d’olio il popolo delle mobilitazioni "a favore della dignità della donna". Centinaia ormai le piazze dell’adunata, decine di migliaia gli iscritti. Un fenomeno senza pari, che farebbe gridare al miracolo in questa Italia indifferente a tutto, specie ai valori, sempre che davvero ci si stia mobilitando per la donna e per la sua dignità (concetto calpestato da decenni, tirato come una coperta troppo corta, citato a sproposito, anche in nome del diritto a prostituirsi, ad abortire, ad essere padrone del proprio utero come fosse una rivendicazione di rabbia, a essere "nostre" cioè sole e arrabbiate, al sesso libero, alla nudità come forma di autodeterminazione...).È il dubbio che sorge in un’altra parte di popolo al femminile, determinata a non lasciarsi strumentalizzare. «Non vogliamo bandiere», si legge d’altra parte nel vademecum della manifestazione, e questo è un buon inizio, e «la partecipazione degli uomini è richiesta e benvenuta», come a dire che la dignità della donna è interesse di tutti, non una "quota rosa" da riserva indiana dei diritti... «Gruppi numerosi di donne, politicamente schierate e no, hanno deciso di scendere in piazza per recuperare un’immagine diversa della donna - fa sapere intanto Paola Binetti, deputata Udc -. Ma la piazza non è il luogo più adatto per rilanciare quello che Giovanni Paolo II ha chiamato "il genio femminile". La nostra proposta è diversa: vogliamo raccontare "la politica del fare", così tipica delle donne, così per domani abbiamo organizzato "Il genio femminile della domenica", 110 manifestazioni, una per ogni provincia italiana, e in tutte si legge la voglia di dire no a questo andazzo involgarito per dire sì a una politica che ponga davvero la famiglia al centro di un agire responsabile».Tra le prime firmatarie del manifesto c’è invece suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata e responsabile dell’Ufficio "Tratta donne e minori" dell’Usmi: al suo attivo 24 anni di Africa, poi ancora «missionaria della strada e della notte» lungo i marciapiedi altrettanto desolati di Torino, infine dal 2000 a Roma «a coordinare il lavoro di tante comunità religiose, le prime - racconta - ad aprire la case per liberare le nuove schiave». E così alla strada ne hanno strappate 5.000, restituendole - appunto - alla dignità. Ci sarà anche lei in piazza, dunque, anzi, la piazza in fondo ci sarà grazie a lei, perché la mobilitazione è partita proprio da una sua lettera aperta intitolata "Riflessione sulla dignità della donna alla luce dell’immagine presentata dai mezzi di comunicazione", scritta a fine gennaio e subito rimbalzata di blog in sito, di giornale in tivù. «Anche noi ci sentiamo coinvolte, saremo donne con le donne, daremo la nostra solidarietà alle tante che sanno vivere la bellezza della femminilità, che poi è maternità, è dono che genera vita, è fecondità, ovviamente in tutti i sensi: anche le suore devono essere donne feconde, continuiamo a generare vita ogni volta che ci chiniamo su una persona che vive la sua umiliazione e le ridiamo la voglia di vivere». Il messaggio è chiaro e non accetta di essere strumentalizzato: «Si dice che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce, e ciò è più che mai attuale in questo nostro contesto mediatico. Nonostante il grande chiasso che si sta facendo in questi giorni per un albero che è caduto e che ha sconvolto e confuso molte persone, noi religiose continuiamo silenziosamente ma con determinazione a operare per proteggere la dignità e la sacralità di ogni persona, specie della donna e delle minorenni, vittime di una società del consumo e dell’apparenza, della mancanza di moralità e del vuoto di valori». Ricordando che «il corpo è solo un guscio e la bellezza è interiore, altrimenti muore presto. Noi donne religiose vogliamo continuare ad essere questi alberi che crescono senza far rumore per offrire ossigeno, ricordare a tutti - società e Chiesa, politici e persone comuni - che l’onestà, il rispetto della dignità di ogni persona è il capitale più grande su cui un Paese civile deve saper investire». La strumentalizzazione è un rischio, ma vale la pena correrlo: «Abbiamo voluto togliere la donna dalla strada e non ci siamo accorti che la prostituzione entrava nelle nostre case, dentro la tivù, in ogni pubblicità, ovunque». L’appello è a «non farci strumentalizzare ma anche a non strumentalizzarci noi stesse. Un giorno saremo giudicati non solo da Colui che ci ha creati e al quale dobbiamo rendere conto del nostro operato, ma dalla storia».