Un sistema al collasso. Per rendersene conto è sufficiente osservare i numeri (impietosi) che fotografano le drammatiche condizioni del sistema penitenziario italiano: 68mila detenuti ristretti in spazi pensati per ospitarne poco più di 44mila. Strutture spesso fatiscenti, dove in molti casi sono costretti a vivere (accanto ai criminali) malati, sieropositivi e sofferenti psichici. E ancora, il dramma dei suicidi. Ieri si è registrata la 43ma vittima: Raffaele Panariello, 31 anni, di Castellammare di Stabia che si è tolto la vita all’interno del super carcere di Sulmona dove, dall’inizio dell’anno, si sono uccise già quattro persone. Mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 116. «Il sistema ha superato i livelli di guardia da un pezzo», denuncia segretario nazionale della Uil-Penitenziari, Angelo Urso. Strumenti importanti per garantire condizioni di vita migliori ai detenuti e attuare il dettato costituzionale sono le pene alternative. La loro efficacia viene dimostrata da un fatto: tra chi sconta la pena in carcere fino all’ultimo giorno, coloro che tornano a delinquere sono il 66 per cento. Mentre tra quelli che hanno usufruito delle pene alternative, la recidiva crolla al 5 per cento. Detenzione domiciliare, affidamento in prova e semilibertà: al 30 giugno 2010 erano più di 13mila quelle in corso. Ma il ricorso a questi strumenti si è molto ridotto in questi anni. Basti pensare che prima dell’indulto del 2006 erano 50mila le persone che beneficiavano di questi provvedimenti. Oggi, per diversi motivi, se ne concedono sempre meno.
LE ASSOCIAZIONIOccorre innanzitutto sgombrare il campo da equivoci: i domiciliari, la semilibertà, il lavoro in articolo 21 non sono sconti o liberazioni anticipate. «Sono un modo per scontare la pena a tutti gli effetti – precisa Stefania Tallei, della Comunità di Sant’Egidio –. Anzi, sono quasi più faticose per il condannato rispetto al carcere perché richiedono maggiore responsabilizzazione».Funzionano e i dati sulla recidiva lo dimostrano. «Sono un successo senza precedenti e senza tentennamenti», spiega Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”. Eppure sono pochi i detenuti che scontano la pena ai domiciliari, in semilibertà o in una comunità terapeutica: se prima dell’indulto del 2006 alle alternative c’erano circa 40-50mila persone, oggi abbiamo superato di poco le 10mila unità. «C’è l’idea che il solo modo per espiare la pena sia la detenzione in carcere – commenta Manconi –. Inoltre sono state introdotte norme che escludono dal possibile godimento dei benefici una serie di categorie di detenuti». Ad esempio la ex Cirielli che taglia fuori i recidivi.Ma c’è un altro ostacolo che inceppa la “macchina” delle alternative: «In carcere sono tantissime le persone povere che non hanno una casa. E per questo motivo non possono accedere ai benefici», spiega Tallei. Una situazione particolarmente grave per i cittadini stranieri, ma anche «per i molti malati che, pur avendo la dichiarazione di incompatibilità firmata dal giudice, non possono uscire galera perché non hanno una casa», aggiunge Tallei.Occorre quindi costruire «alternative sul territorio per chi non ha i requisiti richiesti», spiega Fulvio Sanvito, responsabile area bisogno di Caritas Ambrosiana che coordina il progetto “Un tetto per tutti”, rivolto anche agli ex detenuti. A pagare il prezzo più alto sono soprattutto i più poveri, coloro che non devono scontare pene brevi e che potrebbero beneficiare di queste opportunità. «Ma non avendo un domicilio, tutto si blocca – conclude Sanvito –. Parallelamente serve un lavoro di sensibilizzazione delle comunità: far capire che il carcere non è il solo modo per espiare la pena».
GLI AGENTI«Nelle attuali condizioni di detenzione non è possibile svolgere attività trattamentali e le carceri sono tornate ad essere le università del crimine. Entri ladruncolo ed esci mafioso». Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari , è convinto che «il percorso di espiazione» non si debba necessariamente svolgere in cella «la certezza della pena – osserva – non significa chiudere a chiave la cella e buttare la chiave».Al contrario, una puntuale applicazione delle pene alternative per i detenuti che ne hanno i requisiti «è propedeutica a due obiettivi: la deflazione del sovraffollamento e la rieducazione del detenuto, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione», osserva Sarno. «Non è possibile avere in un carcere, e spesso anche nella stessa cella, delinquenti dai diversi gradi di pericolosità – puntualizza Donato Capece – dai criminali incalliti al tossicodipentente». Per affrontare questa situazione, secondo il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), occorre potenziare l’esecuzione penale esterna «creando un carcere invisibile sul territorio, dove possono essere collocati coloro che hanno commesso reati lievi e che non creano allarme sociale» riservando i penitenziari solo ai soggetti pericolosi. Occorre quindi un “nuovo” carcere, non una «discarica dove buttare tutto senza distinzione» ma «circuiti penali differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi», spiega Capece. Purtroppo però, l’applicazione delle pene alternative «sembra essere andata in disuso», come denuncia il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: «La legislazione prodotta in questi ultimi anni, ad esempio la ex-Cirielli, riduce la possibilità di applicare questo tipo di pena». Senza dimenticare il fatto che sia la magistratura di sorveglianza, sia le equipe di trattamento all’interno delle carceri sono oberate di lavoro .«Non credo però che il problema carcerario si risolva con il ricorso alle pene alternative – conclude il garante – Servirebbe una riforma del codice penale, che preveda l’applicazione di misure diverse dal carcere».