Alcuni pescatori di Mazara del Vallo sequestrati in Libia tra due ufficiali della Marina del generale Haftar, rappresentato nel quadro - Collaboratori
È una storia di gambero rosso e di oro nero. Di ostaggi usati come bottino da mettere all’asta in una partita a poker con troppi giocatori. Dal generale Haftar che cerca un appiglio per non finire definitivamente scaricato dai protettori russo-egiziani, alla Francia che può incassare la gratitudine dell’Italia dopo anni di contrapposizione in terra libica. Da novanta giorni 18 pescatori siciliani sono prigionieri del signore della guerra Khalifa Haftar. E nel negoziato, non sapendo più a che santo votarsi, anche la diplomazia maltese si offre per dare una mano e trovare una soluzione entro Natale.
La mediazione è difficile. Ad ogni apparente punto di svolta sembra che i negoziatori debbano ricominciare daccapo. Il generale ribelle, che dopo aver fallito l’assalto a Tripoli sta tentando di riguadagnare peso, sta giocando la carta dello scambio di prigionieri, assicurando di voler riportare a Bengasi quattro libici arrestati in Sicilia cinque anni fa, condannati a 30 anni ciascuno in primo e in secondo grado a Catania per la morte in mare di 49 migranti nel 2015. Uno scambio impraticabile per l’Italia. All’inizio sembrava solo un modo per alzare il prezzo del rilascio, ma ora lo stesso Haftar è ostaggio delle sue promesse alla popolazione.
Il governo di Tripoli ne approfitta per regolare i conti con Roma, accusata di aver scelto la politica del piede in due scarpe: le trattative riservate con le milizie e i trafficanti fedeli a Tripoli, intanto cercando con Haftar il dialogo sui pozzi petroliferi; l’inutile e costoso vertice di Palermo nel 2018 e le missioni navali che non contrastano per davvero il traffico di armi destinate ad Haftar e non proteggono neanche i pescatori siciliani. Non è un caso che a perorare la causa di un plateale scambio di prigionieri, certo più imbarazzante di un qualsiasi segreto pagamento in denaro o di concessioni politiche da non sbandierare, sia proprio il vicepresidente del consiglio presidenziale di Tripoli, Ahmed Maitig. «Credo la direzione sia quella dello scambio con i calciatori libici condannati al carcere in Italia», ha dichiarato al Corriere della Sera. La polizia di Haftar, dopo avere minacciato l’incriminazione per traffico di droga a danno dei pescatori, al momento sembra avere desistito.
In gioco c’è altro. L’Italia, ha ricordato Maitig ai negoziatori di Roma, conserva un vantaggio nel giocare da mediatore nel dialogo multilaterale tra Egitto, Turchia, Grecia e Libia. Un “dialogo”, viene fatto notare anche da fonti diplomatiche maltesi, «che può essere decisivo per la spartizione, l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti nel Mediterraneo». Non è un caso che quasi mai venga citata la Francia, le cui acquisizione energetiche e il ruolo sul campo a danno dell’Italia non sono messe in discussione. Tuttavia proprio Parigi può rivelarsi l’alleato dell’ultima ora. Haftar deve la vita ai medici militari francesi, che lo hanno salvato da un ictus. Niente di sentimentale, naturalmente. Ma uscire dall’impasse converrebbe a tutti.
La trattativa passa anche da Malta, che in questi anni ha mantenuto rapporti assidui con tutte le parti in Libia. Del resto non c’è affare o malaffare libico che non passi da La Valletta. I servizi segreti maltesi hanno buone fonti e ottime ragioni. Negli ultimi anni una nutrita schiera di fuggiaschi, avventurieri, esuli e faccendieri di entrambe le sponde hanno trovato riparto al di qua o al di là del Mediterraneo, a seconda che dovessero fuggire da Tripoli o sfuggire agli investigatori europei.
Anche in queste ore la marineria dell’isola continua a spingersi nel “mammellone”, quel pescoso tratto di mare in acque internazionali che prima il dittatore Gheddafi e poi il generale Haftar hanno dichiarato unilateralmente come area esclusiva. Tuttavia a venire ostacolati sono esclusivamente i pescherecci siciliani e tunisini.
Un anno fa si era trovato un accordo. L’italiana “Federpesca” e la “Libyan military investment authority”, un ente vicino all’esercito di Haftar, avevano siglato un patto. Attraverso una società maltese, che avrebbe incassato una provvigione, i pescherecci italiani avrebbero pagato una “tariffa” per ogni chilo di gambero rosso. In cambio gli armatori avrebbero potuto rifornirsi di carburante a basso costo nei porti controllati dal generale di Bengasi. Haftar ci avrebbe guadagnato due volte: il “dazio” per il pesce e le entrate per il gasolio.
Su pressione del governo di Tripoli, che non vedeva di buon occhio quella concessione al nemico di Bengasi, Federpesca fu costretta a indietreggiare. Argomenti tornati sul tavolo del negoziato per far tornare a casa i 18 pescatori prigionieri entro il Natale.