L’imbrunire del decimo giorno cala sulla tendopoli di Onna, epicentro del dolore d’Abruzzo. Fra le tende della Protezione civile allineate al millimetro, nel rumore del generatore di corrente che si mette in moto, gli sfollati stretti nelle giacche a vento s’avviano alla mensa. Tutto appare ordinato, decoroso, efficiente. Tutto sembra fatto al meglio da volontari e Protezione civile che s’affaccendano ora laggiù, nelle cucine, mentre l’odore del sugo s’allarga nel campo. La gente siede ai lunghi tavoli e aspetta, paziente. Qui c’è chi ha perso due figli, ci sono madri che hanno perso bambini di pochi mesi. Fatichi a guardare in faccia chi ti sta davanti, come in un senso di confusa vergogna. Ma donne, uomini, vecchi tacciono in un dolore composto. I bambini, fino all’ultimo se ne restano fuori, attorno a un biliardino. Poi quando arriva la pasta tutti prendono a mangiare, e qualche parola comincia a incrociarsi fra i commensali: sul freddo della notte, sui parenti, giù a Pescara. Educate normali parole, cercando di vivere ancora. Lo spezzatino, la frutta, è tutto buono. «Anche il dolce?», sorride una donna anziana, quando arriva del panettone. Un ragazzo fa una battuta, i vicini ridono. E tu che guardi, che sai quanti figli e quanti padri sono rimasti sotto le rovine del paese morto, a duecento metri da qui, pensi che davvero sbalorditiva è la speranza, negli uomini. Onna è in cenere, ma chi è scampato è qui a tavola, e anche se ha perso tutto sembra voler mangiare, dormire, e alzarsi ancora, domattina. Antonella, paffuta, sui trentacinque anni, quella notte aveva il marito, malato, in ospedale. Alla scossa delle undici di sera è venuta dai genitori a Onna, e ha convinto la madre a dormire con lei nella casa nuova, non ancora finita, accanto a quella di famiglia. Così si sono salvate. La vecchia casa non c’è più. Si è salvato anche lo zio Tonino, che alle due sentiva i cani abbaiare, ululare, e si è affacciato, ma nessun estraneo passava. Quella notte, racconta Antonella ora a voce più bassa, quasi fosse un ricordo che ha paura di risuscitare, d’improvviso un boato oscuro, come un tuono dalla terra, e poi il letto che sussultava, e le pareti che si scuotevano; e, da fuori, gli schianti, e il franare delle macerie. E poi ancora, peggio di tutto, il silenzio: «Un assoluto silenzio, sarà durato due minuti. Mentre si alzava una polvere bianca come fumo, e dalla finestra non si vedeva più niente. Allora, solo allora, le prime urla di chi invocava aiuto ». E ora Antonella oltre al marito malato ha la casa distrutta, e i suoi vecchi che dormono in questa tendopoli dove già nella prima sera si insinua un soffio d’aria fredda e umida. Eppure lei parla, e sorride. Racconta di quel bellissimo piccolo giardino che meraviglia chi s’inoltra fra le ma- cerie. Un angolo salvo come un’oasi, pieno di fiori, in mezzo alla fine del mondo. Era, spiega, il giardino della Tina, la fornaia. Per tradizione ogni anno,la domenica delle Palme, tutto il paese si riuniva in quel giardino, con l’ulivo benedetto in mano. Anche il 5 aprile, c’era anche lei. I tulipani sono lì, rossi, intatti. La signora Tina è morta. E quei due vecchi che vedi mangiare a capo chino, assorti, hanno perduto un figlio di vent’anni. Alla prima scossa il ragazzo ha voluto andare a tenere compagnia alla nonna, nella casa accanto. Sono morti insieme, nonna e nipote. Sono salvi i genitori, straziati, muti. Chi è stato preso, e chi è stato lasciato. Ma una singolare forza, possente, antica, emerge tra la gente. Don Pasquale, il prete venuto da Castellamare di Stabia per aiutare il parroco di Onna, don Cesare, racconta di una madre che qui ha perso due bambine. «Mi ha detto solo: 'Reverendo, io ho affidato il mio dolore a Gesù Cristo'. Io, ammutolito, non ho potuto replicare niente. Che cosa dovevo aggiungere? Quella madre aveva capito tutto». Quanto a questo giovane sacerdote, don Pasquale Somma, trent’anni, è a sua volta una figura che si resta a guardare, che si segue con lo sguardo in questo tendone affollato di gente e gonfio di dolore. Alle sei, ogni sera, dice messa qui nella mensa, su un tavolone da cucina arrangiato ad altare. Cinquanta almeno i fedeli, cinquanta in fila per la comunione, in una tendopoli di trecento persone. Poi, più tardi, mentre tutti mangiano, le stesse mani del ragazzo che ha distribuito l’eucarestia, indossati i guanti di gomma, ritirano fra i tavoli i piatti sporchi. Il prete ragazzo sorride. Lo guardano gli sfollati, lo inseguono con la coda dell’occhio, come cercando risposta a qualcosa che li interroga, e stupisce. Don Pasquale è venuto, dice, «spinto da quattordici dei ragazzi della mia parrocchia Mi hanno detto: ci hai sempre esortato a sporcarci le mani con la realtà. Andiamo adesso, cosa aspettiamo?» E sono arrivati. Don Pasquale si è portato delle casse di bottiglie di rosso della sua terra. Perché, dice, è importante, dopo cena, che davanti a un bicchiere la gente parli, che sciolga quel grumo duro di dolore nel petto. È importante, che la faccia di un uomo li stia ad ascoltare. Lo dice un’altra giovane sfollata, Sabrina: «Se non fossi qui, starei peggio. Perché qui, se piango, gli altri capiscono perché piango, e non sono sola.L’importante, è non essere soli». Le nove e trenta, diversi cellulari suonano. Poco lontano da qui si è avvertita una scossa, i parenti chiamano. «Ma lo sapete – gira la voce tra i tavoli – che su Internet han detto che stanotte ci sarà una scossa fortissima? ». Leggenda o sciocchezza, la notizia percorre la mensa. La paura non vuole ancora finire. Ma le tende, almeno, non possono crollare. Le madri prendono per mano i bambini e li portano a dormire. Se li terranno vicini, ben stretti, abbracciati.