Definiscono l’Italia la propria madre, la propria sposa, il sogno della loro vita. E lo fanno parlando con l’accento delle rispettive città dove vivono, dove sono cresciuti, dove hanno studiato. Sono gli italiani senza cittadinanza, circa 800mila ragazze e ragazzi che sono nati nel Bel Paese o che ci sono arrivati da piccoli e ora sognano di naturalizzarsi. Per loro la proposta di legge sullo ius soli temperato e Ius culturae rappresenta una speranza, quella di vedersi riconosciuti per quello che sono: cittadini italiani. Le loro storie sono uniche, ma hanno alcuni tratti comuni.
Nessuno di loro ha deciso di migrare e se vivono nella condizione di stranieri è perché i loro genitori sono voluti partire, abbandonando la terra natia e stabilendosi in Italia. Questa scelta ha regalato a tutti l’opportunità di vivere in un Paese in pace, dove i diritti umani sono rispettati e garantiti e dove ci sono buone prospettive di studio e di lavoro. Tutti elementi che in molte delle zone di provenienza dei migranti mancano. Questa scelta però implica delle difficoltà, soprattutto burocratiche. Documenti da chiedere e rinnovare, ostacoli nell’accesso a concorsi pubblici e a volte persino nel proseguire carriere sportive a livello agonistico.
La maggiore difficoltà che emerge dai racconti di questi giovani, è comunque legata all’aspetto emotivo. Crescono insieme ai loro compagni di gioco e di studio italiani e si sentono uguali a loro, ma quando diventano grandi c’è sempre qualcuno pronto a ricordare che no, non sono italiani perché hanno un passaporto diverso. Per molti questa realtà si traduce in sofferenza e in un senso di amarezza che non si spiegano. Tutti hanno paura dei permessi in scadenza, si sentono mortificati quando devono fare lunghe file in questura, come chi è appena arrivato dall’estero e ancora non parla una parola di italiano. Italiani nel cuore, "per cuore" anziché "per sangue", ma non per la legge.
In queste settimane ne abbiamo incontrati molti e ci siamo trovati davanti ragazze e ragazzi pieni di vita e determinazione, che si impegnano nello studio, nel lavoro e nel volontariato e che vorrebbero contribuire in modo costruttivo alla crescita del Paese. Per tutti loro la legalità è un valore imprescindibile e non sono pochi quelli che vorrebbero intraprendere carriere politiche o diplomatiche per favorire una cultura della pace e del dialogo.
Dei Paesi d’origine alcuni non hanno alcun ricordo perché sono nati e sempre vissuti qui, altri hanno qualche reminiscenza legata alla loro infanzia. Quando pensano alla casa, tutti loro vedono l’Italia, tanto che andando a trovare i parenti nelle terre d’origine si sentono ospiti, stranieri. Nessuno rinnega le proprie origini, che costituiscono parte di quel bagaglio umano e culturale che li rende doppiamente ricchi e inclini al dialogo. Come piccoli ambasciatori capaci di mettere a confronto mondi diversi e lontani.
Molti hanno alle spalle famiglie che si sono naturalizzate italiane solo quando loro avevano già compiuto il diciottesimo anno di età, quindi si trovano a dover presentare la domanda da soli. Il che significa avere un lavoro stabile, che permetta di avere almeno tre anni consecutivi di contributi e in questa fase storica non è molto facile. Altri non hanno avuto continuità residenziale e per questo si trovano in difficoltà nel rispondere a tutti i requisiti necessari.
Questi giovani italiani senza cittadinanza amano l’Italia e sono fieri di essere considerati italiani quando si trovano all’estero. Ora vorrebbero che la loro Patria adottiva li riconoscesse effettivamente per quello che sentono di essere, senza paura, con lo stesso amore con cui li ha accolti, li ha formati e ne ha fatto piccole donne e piccoli uomini amanti della vita, un po’ sognatori e desiderosi di vivere pienamente da italiani.
Definiscono l’Italia madre, sposa, sogno della loro vita. Lo fanno parlando con l’accento delle rispettive città dove vivono, dove hanno studiato. Sono gli italiani senza cittadinanza
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