mercoledì 8 aprile 2009
L’odissea di migliaia di persone ospitate negli accampamenti allestiti dalla Protezione civile. Il terremoto ha lasciato un segno indelebile e ha portato un altro modo di guardare la vita: «Tante mattine vai al lavoro scocciata. Magari potessi tornarci domani come se nulla fosse accaduto».
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La prima notte, e la seconda, sono le più dure. Strappati nel sonno dalle loro case, scappati col pigiama addosso, sono rientrati giusto per riempire in fretta una valigia – chi ha potuto – e poi via dal terrore dei calcinacci tra i capelli e sulle lenzuola. Qui, nelle tendopoli allestite dalla protezione civile attorno a L’Aquila, la notte dopo quella della grande spallata è lunga da passare. Qualcuno la casa non ce l’ha più. Molti l’hanno dovuta lasciare perché anche nei condomini moderni, dove le colonne di cemento armato hanno retto, qualche parete di foratini è venuta giù, scoprendo l’intimità di soggiorni col lampadario di cristallo e camere da letto, ora esposte alla vista dei passanti. Molti torneranno appena i tecnici daranno il via libera, ma la paura di un’altra scossa li tiene lontani.Qui allo stadio del rugby di Acqua Santa alle 22 e 30 hanno già dato la cena a tutti. Ma il montaggio delle tende procede a rilento. Fino alle 2 di notte la gente ha atteso imbacuccata dentro alle macchine parcheggiate fuori. Molti ci passeranno la notte. Alla fine le tende montate saranno 100, per ospitare circa 600 persone. Parecchi da qui sono stati portati coi pulmann negli alberghi del litorale: «Ma la maggior parte vuole restare vicino alla propria casa – spiega un dirigente del Dipartimento della protezione civile nazionale – anche perché hanno addosso solo i vestiti con cui sono scappati». La prima tenda a essere montata è quella del Pma, il posto medico avanzato. Dentro ci sono i nove ospiti di Villa Rosa, la casa famiglia per disabili psichici della Asl dell’Aquila. Qualcuno si dondola sulla sedia, qualcun’altro guarda nel vuoto. Antonella Giampaolo, educatrice di Villa Rosa, ha gli occhi rossi per la stanchezza: «Tutti si sono resi conto che è successo qualcosa di grave. Hanno avuto paura, come noi, ma non sanno comunicarla. Sono stanchi, nervosi, la psichiatra è disponibile a somministragli i calmanti. Ma noi li conosciamo da trent’anni, sappiamo che carattere ha ciascuno e sono certa che non ce ne sarà bisogno».Piazza d’armi, ore 23 e 35. Qui sul campo da calcio sono 68 le tende blu della protezione civile, altre 32 vicine alla pista di atletica. In tutto 700 persone. E già si guarda avanti. Agostino Miozzo, del Dipartimento nazionale della protezione civile, sfoggia una bella barba da montanaro e la sicurezza dell’esperto: «Cominciano ad arrivare le squadre dei tecnici: vigili del fuoco, geometri, periti, architetti, ingegneri che abbiamo formato in questi anni. Dovranno valutare l’entità dei danni e, dove possibile, far rientrare le famiglie. Ma sono migliaia di stabili, servirà qualche settimana per avere le idee più chiare». In 300, da qui, sono partiti per Tortoreto, Roseto degli Abruzzi, Alba Adriatica, Giulianova, i luoghi di vacanza degli abruzzesi. Nunziatina Ciccone, stretta in una coperta per difendersi dall’umidità, aspetta di entrare in una tenda col marito. Casa sua è nella palazzina lì dietro, indica: «Ci cadevano i calcinacci addosso – racconta alla luce dei gruppi elettrogeni – ed ero terrorizzata dall’idea che venisse giù il soffitto. Quando è finito, sembrava ci avessero bombardato. Casa mia è un gioiello, tutti mobili antichi. Restiamo qui, ho paura degli sciacalli. Ma è vero che ci saranno scosse per tre mesi? Che ne deve arrivare un’altra forte?».Paura, ansia, angoscia. E voglia di normalità, una normalità troppo spesso trascurata e sottovalutata: «Tante mattine vai al lavoro scocciata. Magari potessi tornare domani a scuola come se niente fosse accaduto», al liceo classico dov’è direttrice amministrativa. «Lo vedi in tivù, ma non pensi mai che toccherà a te dormire in tenda». Mischiati agli abruzzesi in attesa della tenda ci sono famiglie di romeni, una coppia giovane di peruviani col bambino in braccio. Il terremoto spiana tutto, anche le differenze sociali.Altro campo sportivo, il Cetti-Colella, altra tendopoli. La mezzanotte è passata da tempo, ma di tende qui ce ne sono solo 17. La gente, circa 800 persone, dorme nelle due tensostrutture dei campi coperti da calcetto. Una distesa di brande e coperte marroni. Qualcuno s’è portato la sua trapunta, per avere l’illusione di stare ancora nel suo letto. L’acquazzone è arrivato improvviso e la grandinata ha fatto desistere dal montaggio. Se si giocasse, l’arbitro sospenderenne la partita per impraticabilità del campo. Nel parcheggio vicino però le squadre della protezione civile della Regione Friuli Venezia Giulia lavorano all’unisono e stanno tirando su una ventina di tende. Al Cetti-Colella sotto le tensostrutture le luci sono accese, la porta si apre di continuo, fuori rombano i tir che scaricano i container.«Non vogliono stare al buio – spiega Fabio Cordella, uno dei venti scout distaccati qui da Termoli, L’Aquila e Perugia –. Prima di mezzanotte c’è stata una bella scossa, qualcuno ha urlato, una decina sono scappati fuori. Hai voglia a dirgli che queste strutture sono sicure. Hanno i nervi a pezzi, hanno bisogno di affetto». Dentro c’è chi tossisce, chi parla a bassa voce, chi russa. «Ho sbagliato a non portarmi il cappello di lana», brontola una donna. Ore 1 e 14: un traliccio dell’iluminazione del campo oscilla come un giunco, i vetri tintinnano, una cornacchia vola via, è la terra che dondola di nuovo. Ma stavolta lo sfinimento ha il sopravvento e nessuno scappa fuori.
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