Una vignetta in cui Donald Trump chiede di togliere la Statua della libertà perché alimenta l’immigrazione diventata una notizia e come tale 'bevuta' dalle maggiori testate degli States. O le innumerevoli, ormai, battute attribuite a Laura Boldrini sull’accoglienza degli immigrati, forse sull’onda del precedente impegno come portavoce italiana dell’Acnur, una per tutte quella nella quale propone una tassa sulla vendita della carne di maiale. Battute inverosimili senza neanche bisogno di verificarle. Eppure propagandate come vere da uno degli eserciti contrapposti che si fronteggiano sui social network e che non vedono l’ora di far circolare ogni notizia idonea ad alimentare l’ostilità contro il bersaglio prescelto. «Non è vero ma ci credo - Vita morte e miracoli di una falsa notizia».
Esperti al capezzale di un’informazione malata di fretta e drogata dall’odio verso il 'nemico', con l’entrata in scena di soggetti non professionisti, non tenuti alla verifica dei post che condividono in Rete, accanto a professionisti che sarebbero invece tenuti, ma in questa folle corsa verso il peggio spesso se ne dimenticano, per non restare fuori dal gioco. L’incontro è stato voluto proprio dalla presidente della Camera presso la Sala della Lupa, e moderato da Paolo Attivissimo, giornalista informatico e - nomen omen - 'cacciatore di bufale' con pochi rivali. «I social network fanno informazione, non possono scaricare la loro responsabilità sociale sugli utenti», dice Boldrini. «È l’anticamera dell’odio», dice, ricordando la commissione messa in piedi fra esponenti politici ed esperti contro l’intolleranza e intitolata a Jo Cox, la politica britannica assassinata nel pieno della campagna sulla Brexit. Boldrini che oggi - annuncia - incontrerà i vertici di Facebook per occuparsi proprio di questa patologia della Rete, dopo aver deciso di denunciare pubblicamente con nomi e cognomi gli autori della «galleria degli orrori», come la definisce, che la riguarda.
Ida Colucci, direttrice del Tg2 tocca il tema cruciale della verifica e, a domanda precisa, risponde che «fra essere esatti o primi» preferisce la prima soluzione. Ma non è facile discernere e non semplice, sempre, verificare. «A volte aiuta sapere che un’agenzia è scritta da un collega esperto del settore», dice. Ma la bufala su Trump, annota Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia dei media digitali è lì a ricordarci che «neanche le agenzie vanno prese sempre per buone», se a inciampare sono quotidiani così prestigiosi. Raffaele Lorusso, segretario della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, cita l’articolo 2 della legge del 1963 istitutiva dell’ordine dei giornalisti. Parole scritte da Aldo Moro e Guido Gonella sulla libertà di informazione che suonano attualissime, nel loro occuparsi della «tutela della personalità altrui», di «obbligo inderogabile della verità sostanziale dei fatti», dei «doveri di lealtà e buona fede» e dell’«obbligo di rettifica».
E poco importa se oggi, parlando di Web, si usano termini più difficili (debunking) a indicare la tecnica per destrutturare le bufale, che si rivela molto più complicata della loro messa in circuito. Il senso è lo stesso, gli stessi i doveri verso i cittadini che almeno i giornalisti dovrebbero conoscere bene. Ma ecco Luca Sofri direttore del Post mettere in vetrina con una certa crudeltà gli svarioni in cui sono incorsi anche i quotidiani più prestigiosi con una riparazione che arriva dopo qualche giorno, ma con imbarazzante differenza di spazio e visibilità. Walter Quattrociocchi, direttore del Laboratorio computational social science Imt di Lucca, giovane guru di settore, indica il vero nodo: «Si comunica ormai per aver ragione, non per confrontarsi».
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