giovedì 7 luglio 2011
Un agente: usavano strategie militari. Ed erano italiani. «Non più di 500 uomini hanno dato vita alla protesta violenta. Eravamo stati avvisati dai servizi, ma sarebbe stato impossibile fare meglio per fronteggiare un’azione così pianificata».
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«Il casco per fortuna ha retto. Gli scudi no. Spaccati dalla sassaiola, frantumati dalle bombe carta, resi inservibili da assalti organizzati militarmente. Abbiamo eseguito gli ordini. Ci siamo difesi. Ma chi ci risarcirà delle ossa rotte, dei veleni respirati, delle ferite che ci rimarranno addosso?». Andrea Cecchini è a casa. Per un paio di settimane non potrà indossare la divisa azzurra da poliziotto. Ordine dei medici. «A me è andata bene: ci ho rimesso "solo" il timpano sinistro, mentre ai polmoni devo far smaltire i gas degli acidi che lassù ci hanno gettato addosso».Lassù è in Val di Susa. Cecchini c’è arrivato da Roma con il Primo Reparto mobile. Professionisti dell’ordine pubblico, talvolta accusati di avere la mano pesante, addestrati a sedare gli ultras negli stadi o gli esagitati fuori dalle discariche.I servizi segreti avevano avvertito del pericolo: «Sapevamo – conferma l’agente, che è anche dirigente del sindacato di polizia "Anip-Italia Sicura" – di dover mettere nel conto una giornata di guerriglia senza tregua. Eravamo stati informati di questo rischio». Allora perché nonostante l’allarme è successo il finimondo? «Non so se dal punto di vista della pianificazione del nostro intervento si potesse fare meglio. Quello che so è che mai avrei immaginato di trovarmi di fronte a una vera organizzazione militare. C’era chi dava gli ordini, chi manovrava le squadre di aggressori, chi si occupava della "logistica" e chi dei rifornimenti di munizioni tanto artigianali quanto pericolose».In cima a un costone è capitato di vedere «un mortaio fatto con un tubo di ferro dal quale venivano lanciate le bombe carta, con una gittata superiore ai cinquanta metri». Una guerra zolla per zolla. «Nella nostra area eravamo centoventi contro cinquecento dimostranti. È stata battaglia per cinque ore. Noi sempre lì davanti, loro a darsi il cambio per riprendere fiato». È così che la prima linea dei "black block" ha potuto mantenere a lungo la posizione. «Dentro a una tenda abbiamo visto che venivano portati dei grossi massi che poi alcuni di loro frantumavano a colpi di mazza fornendo a chi stava davanti quintali di sassi». E con quelli hanno piegato caviglie, fratturato braccia, stordito gli uomini in divisa.«Non ci stiamo occupando del movimento No Tav nel suo complesso, ma di un gruppo di 300 persone, definite per convenzione black block», ha confermato ieri Giuseppe Petronzi, dirigente della Digos di Torino, dove la settimana scorsa sono arrivati dimostranti dalla Francia e dalla Spagna, ricevendo appoggio logistico dai compagni dei centri sociali piemontesi. Due dei quattro giovani fermati, comparsi dal giudice per l’udienza di convalida, hanno affermato di essere stati picchiati durante l’arresto: uno ha un braccio rotto, l’altro presenta ecchimosi su tutto il corpo.Cinque ore che non si dimenticano. Né da una parte, né dall’altra. Tra le forze dell’ordine si conteranno 204 feriti (i No Tav ne rivendicano 223). Al termine della battaglia verrà rinvenuto l’arsenale. Estintori, mazzette di ferro, roncole, fionde, martelli, tubi e armi rudimentali, come l’improvvisato bazooka che aveva bersagliato gli agenti: bengala e bulloni legati a potenti mortaretti.«Io stesso – racconta Cecchini – sono stato colpito per tre volte dalle bombe carta». La vista s’annebbia, le ginocchia si piegano, i polmoni si gonfiano di polvere e fumo, mentre l’area è appestata perfino dal lancio di ammoniaca. «Alla terza sono finito ko». Il contatto fisico con i black-block c’è stato. «Ma a dire il vero di tutti quelli con cui ci siamo scontrati non ne ho sentito neanche uno parlare una lingua straniera».Nella zona di Ramat la situazione ha rischiato di degenerare: un carabiniere è stato isolato, circondato, pestato e privato della pistola di ordinanza. Qualcuno, tra i "black block" sperava di scambiare l’arma (poi restituita) con la liberazione dei "prigionieri".
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