
Capire le esigenze del malato di tumore è parte fondamentale dell'attività dell'oncologo - ICP
Molti sono stati i progressi nelle terapie oncologiche negli ultimi decenni, ma tutt’oggi a una diagnosi di tumore il paziente avverte comprensibilmente smarrimento e paura. Di qui la necessità che il medico oncologo curi con particolare attenzione la relazione con il malato: ed è provato che ne otterrà beneficio egli stesso.
Animato da queste convinzioni, il Collegio italiano dei primari oncologi medici ospedalieri (Cipomo) ha avviato lo scorso anno una Scuola di alta formazione per giovani specialisti in Oncologia, con sede a Piacenza, che propone un corso in “Comunicazione e medical humanities in oncologia”: materie quanto mai necessarie, ma tuttora poco affrontate durante il percorso universitario.
Fondatori della Scuola – che fu presentata in Vaticano con il presidente della Pontificia Accademia per la Vita (Pav), il vescovo Vincenzo Paglia, e il cancelliere della Pav don Renzo Pegoraro – sono Luisa Fioretto (presidente del Cipomo, direttore del Dipartimento oncologico dell’Azienda sanitaria Toscana Centro, Firenze), Luigi Cavanna (già presidente del Cipomo ed ex direttore del Dipartimento di Oncologia ed ematologia dell’Asl di Piacenza) e Alberto Scanni (presidente emerito del Cipomo e già direttore generale dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano).
«Al corso partecipano venti oncologi – riferisce Fioretto – già strutturati in reparti ospedalieri delle diverse regioni, dopo una selezione delle domande da parte della direzione della Scuola. Gli allievi sono ospitati a Piacenza per i tre moduli del corso, di due giorni ciascuno, grazie a risorse del Cipomo, di alcuni sponsor farmaceutici e della Fondazione di Piacenza e Vigevano».
«L’iniziativa del Cipomo – sottolinea Scanni – ha voluto colmare una carenza del sistema nell’ambito della formazione del medico. Ogni oncologo ha avuto esperienze con il dramma che affrontare la patologia tumorale suscita nei malati, e nelle loro famiglie: la buona comunicazione, il non sottrarsi all’ascolto e al confronto, talvolta la pacca sulla spalla, sono atteggiamenti che si possono insegnare, ma soprattutto che vanno testimoniati con l’esempio per i colleghi e il personale del reparto».
Le buone pratiche vanno quindi apprese e diffuse sul territorio. Di alcune è stato inventore e promotore il terzo socio fondatore, Luigi Cavanna, divenuto noto anche Oltreoceano grazie alla copertina che gli dedicò la rivista Time nel 2020 per la sua attività di cura a domicilio dei malati di Covid-19. «La medicina contemporanea – osserva – è concentrata su settori sempre più minuscoli, sulla cellula, sul Dna: si rischia di non vedere più la persona, ma solo la sua malattia. Noi medici non dobbiamo aspettare di essere malati per capirlo. È vero che spesso scarseggiano risorse e tempo, ma non deve diventare un alibi».
A fine marzo ha preso avvio la seconda edizione della Scuola: il primo modulo è stato dedicato al tempo e alla parola, il secondo (a giugno) riguarderà il dolore e la speranza, il terzo (in ottobre) si focalizzerà sul gruppo e il contesto. Al termine dell’intero percorso, la Scuola conferisce un attestato di partecipazione e 50 crediti Ecm.
Il primo tema è stato introdotto da Gabriella Farina, direttore del dipartimento di Oncologia all’ospedale Fatebenefratelli di Milano: «L’ascolto è il primo passo verso la conoscenza dell’altro, ma anche verso una informazione corretta. Dire la verità, al momento giusto rispettando la fragilità del paziente e senza togliere mai la speranza (che non è l’ottimismo) serve per avere la fiducia e la collaborazione del malato».
Poi i corsisti hanno ascoltato la viva voce di una paziente, Sara, che scoprì il primo tumore a 29 anni: una storia che va dal disorientamento iniziale all’affidamento al medico, in un percorso tanto lungo (con due ricadute) quanto faticoso, ma a lieto fine. Merito anche dell’attenzione alla persona dell’équipe di Fabrizio Artioli, che ha diretto a lungo l’Oncologia negli ospedali di Carpi e di Μirandola, nella Usl di Modena.
I lavori sono proseguiti con il lavoro di approfondimento: discussioni guidate dal team di formatori, coordinato dallo psicologo e psicoterapeuta Simone Cheli (docente al campus di Roma della St. John’s University), che ricorda come da un precedente studio Cipomo fosse emerso che in Italia gli oncologi non hanno livelli alti di burnout, ma lamentano un basso livello di qualità di vita.

Di qui la consapevolezza che «favorire una migliore gestione della comunicazione con il paziente – sottolinea Cheli – ha ricadute positive anche sulla vita del medico: considerando il burnout come la conseguenza della mancata capacità degli oncologi non solo di non prendersi cura dei pazienti, ma anche di sé e ad avere un’équipe che li supporti. Nel primo modulo si lavora sulla dimensione personale dell’oncologo e su come può monitorare i suoi vissuti, nel secondo sulla gestione delle comunicazioni difficili con pazienti e familiari, nel terzo sulla comunicazione nei team di lavoro, quindi per promuovere un’équipe supportiva efficace».
Tra i corsisti di questo primo modulo del 2025 l’interesse è stato alto. «Frequento il reparto di Oncologia dal quarto anno di Medicina – racconta Rossella Sollami, medico oncologo all’ospedale S. Elia di Caltanissetta – e ho sempre ritenuto fondamentale avere strumenti per gestire al meglio la relazione medico-paziente. A maggior ragione in oncologia dove, grazie a sopravvivenze sempre più lunghe, seguiamo i pazienti per tutta la vita. Da questo primo modulo del corso riporto la consapevolezza che il tempo è fondamentale, non solo quello dato al paziente, ma anche quello che serve a me per recuperare le energie e poter ricominciare il mio lavoro con nuove risorse. Penso di raccogliere un bagaglio che mi servirà in futuro».
Ha già conseguito un master in cure palliative di II livello con tesi “Comunicazione medico-paziente due lati di uno specchio“ Antonino Castro, direttore ff dell’Unità operativa complessa di Oncologia della Asst Franciacorta con sede a Chiari (Brescia): «Ho sempre avuto interesse a capire chi è il paziente, credo che sia la chiave di volta della presa in carico. Mi è piaciuta la strutturazione del corso. Importante è saper aiutare il paziente ad accogliere la diagnosi della malattia e le cure seguenti. È risultato evidente che si vive di effetti riflessi: meglio sta il paziente e meglio sto io, e viceversa. Per questo noi in reparto abbiamo già percorsi con lo psico-oncologo. La conclusione è che siamo persone che accolgono persone, in una relazione asimmetrica sia perché siamo sani, sia perché abbiamo competenze specifiche. Ma dobbiamo capire le domande che ci vengono dai pazienti, molto spesso non chiare o non esplicitate, e ricordare che le persone sono tutte uniche, con una loro storia ed esigenze specifiche».
Quelle esigenze che già spingevano Luigi Cavanna a essere presente in ospedale al mattino alle 7 se il paziente ne aveva bisogno (come ricorda un’impiegata della Asl di Piacenza). E che lo avevano portato a organizzare sul territorio squadre di oncologi e infermieri «per portare le chemioterapie in ambulatori più vicini al domicilio del paziente, che così evitava di percorrere ripetutamente 70 chilometri (e altrettanti al ritorno) per raggiungere l’ospedale, sconvolgendo la vita della sua famiglia».
«Dobbiamo ricordare – osserva Fioretto – che non abbiamo solo un contratto con l’ospedale, ma anche con i malati. Ci auguriamo che i nostri corsisti diventino agenti di cambiamento nelle proprie realtà lavorative e prevediamo di fare valutazioni di impatto nei loro contesti, sentendo i primari».
La Scuola è nata da poco, ma i soci fondatori sono pieni di nuovi progetti: dalla possibilità di realizzare corsi in altre località all’idea di rivolgersi anche agli infermieri. «Non abbiamo la presunzione di risolvere i problemi della povertà di relazione con il paziente e della mancanza di empatia da parte del medico – conclude Scanni – ma con la nostra Scuola vorremmo gettare semi per far crescere la consapevolezza della loro importanza».