martedì 11 dicembre 2012
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​Antonio tiene in braccio la sua bambina Emanuela, quattro mesi di simpatia e il sorriso contagioso. La coccola cantando una filastrocca e la piccola si diverte, tranquilla tra le braccia del papà. I vezzi e le filastrocche suoi, le allegre smorfie della piccina sono il preludio sereno e tranquillizzante a una storia dove la luce trova spiragli nella fitta oscurità. Antonio Faccenda e sua moglie Enza vivono a Grumo Nevano, un piccolo centro alle porte di Napoli. Antonio, 32 anni, lavora nel bar di famiglia, dietro il vetro e il computer della ricevitoria dell’enalotto, delle ricariche telefoniche e dei cento nuovi giochini. Cose non nuove per lui, giocatore precoce: «Avevo otto o nove anni quando mio padre mi portava con sé all’ippodromo. Mi divertiva guardare la corsa e i cavalli, poi non mi sono limitato a guardare. La prima volta che ho scommesso ho vinto, la fortuna del principiante - annota. - Questo mi ha esaltato, mi ha dato l’ebbrezza di riuscire in qualcosa indipendentemente dalla vincita e mi vantavo. All’inizio era un gioco come un altro, ma il diavolo è cattivo, non ti lascia se scopre che sei debole e io so di non riuscire a frenarmi in certe situazioni». Antonio ha davvero conosciuto l’inferno della schiavitù del gioco.Dopo il diploma allo scientifico è andato a lavorare in un’agenzia di scommesse, come se fosse una tappa obbligata. «Al liceo ho perso l’ingenuità della fanciullezza, Ho dovuto rapportarmi con ragazzi che ne sapevano più di me e ho dovuto tirare fuori i denti per non essere mangiato. Era diverso dall’Azione Cattolica – continua Antonio – e ho dovuto cambiare, non fidarmi più delle persone per non farmi calpestare». Lezioni di vita, «sbagliate» riconosce, che ha dovuto mettere in pratica nel mondo del lavoro, «dove ho incontrato le persone più brutte al mondo: i giocatori». Antonio si racconta e le parole dapprima incerte si fanno chiare, sicure, concrete. Non si nasconde, non chiede di essere compatito: «Il periodo più brutto della mia vita». Per spiegarsi meglio paragona quei tanti anni a quelli di un tossico: «Scommettere è una droga a tutti gli effetti. Dipendevo dal gioco, avevo crisi di astinenza. Giocavo su tutto e mentivo, come tutti i giocatori: gli esseri umani più bugiardi. Ma il gioco – osserva – ti fa star male sempre, anche quando vinci è una felicità finta. È una malattia che ti porti dentro». Non inganna se stesso: «Perdere non è pericoloso, ma è la voglia di recuperare la perdita che porta a giocare ancora più forte e più spesso».Antonio ha contatti quotidiani con tutti i tipi di giocatori. In quelli incalliti rivede la sua stessa frenesia, si sente coinvolto e cerca di distoglierli e non lo rassicura il loro «non ti preoccupare» in risposta ai suoi inviti a tentare di smettere. «So che giocano soldi che non potrebbero giocare» dice e da esperto aggiunge: «Se prima, cioè fino a quando i videopoker sono stati illegali, la scommessa classica riguardava solo gli uomini, oggi le slot, il bingo, il gratta e vinci sono i veri giochi ammazzafamiglie perché coinvolgono le donne, che in casa sono state sempre il freno al gioco».   Da quasi un anno Antonio ha definitivamente troncato con le scommesse e a staccarlo è stata sua moglie. «Il gioco è più forte di te, gli dicevo – racconta Enza. – Io non ho la mania del gioco, non la capisco e non capivo che cosa lo spingesse. Oltre ai soldi che guadagnava con il lavoro e che buttava, il gioco gli toglieva il tempo per fare altre cose. Glielo ricordavo, abbiamo litigato tante volte, ma Antonio è testardo e doveva convincersi da solo che stava sbagliando». Ad aiutarlo anche l’incontro con il suo educatore dei tempi dell’Azione Cattolica e con cui ha iniziato un cammino di catechesi. Antonio confida: «Ho ritrovato la fede sperduta negli ambienti moralmente insalubri in cui ho lavorato, sto curando la pianticella che avevo trascurato, ho riacceso la candela che stava per spegnersi». Sa che il virus del gioco non scompare subito ed è lì pronto a risvegliarsi, ma giorno dopo giorno Antonio sta riscoprendo la vera vita e i veri valori e per non dissipare questa nuova forza è pronto a difendere le sue conquiste di uomo, di marito, di padre proseguendo nel percorso di autorecupero: la speranza per lui ha i nomi e i volti di Enza e di Emanuela. 
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