Dopo quattro ore di riunione con i suoi avvocati, il ministro dello Sviluppo Federica Guidi detta ai suoi collaboratori le cinque righe più pesanti della sua vita: «Caro Matteo, sono assolutamente certa della mia buona fede e della correttezza del mio operato. Credo tuttavia necessario, per una questione di opportunità politica, rassegnare le mie dimissioni. Sono stati due anni di splendido lavoro insieme. Continuerò a servire il Paese come cittadino e imprenditrice». È una lettera che a Boston, dove il premier si trova per il terzo giorno di visita istituzionale negli Usa, era attesa sin dai primi lanci d’agenzia relativi al caso-petrolio che coinvolge il compagno del ministro. C’era solo un lieve dubbio relativo all’opportunità di attendere il rientro dagli States per risolvere la questione
de visu. Ma l’esito sarebbe stato lo stesso e lo stillicidio delle polemiche avrebbe rischiato di mettere ancora di più sotto pressione il governo. E allora ecco giustificata l’accelerazione che porta Guidi, alle 20 in punto, a chiudere la sua parentesi al governo. «Cara Federica – è la risposta politicamente corretta del premier quando in Italia è notte –, ho molto apprezzato il tuo lavoro di questi anni. Serio, deciso, competente. Rispetto la tua scelta personale, sofferta, dettata da ragioni di opportunità che condivido. Nel frattempo ti invio un grande abbraccio. Continueremo a lavorare insieme». Le conseguenze politiche dell’inchiesta lucana prendono forma mentre in Italia è pieno pomeriggio e negli Usa è appena spuntato il sole. Quando Renzi si trova presso la sede Ibm, le notizie da Roma sono ancora parziali. Nel tragitto verso Harvard, invece, tutto diventa nitido agli occhi del premier e dei suoi collaboratori. E prima di varcare il portone del prestigioso college americano, Renzi è già convinto che, finita la lezione, sul suo
smartphone apparirà la resa del ministro. E in effetti così accade. Però l’elaborazione del passo decisivo, da parte di Guidi, è faticosa. Il ministro comprende subito il peso politico di quella intercettazione. Sa che la lettura del fatto sarà pressoché univoca per l’opinione pubblica. Però nessun attacco delle opposizioni e della stampa può toglierle dalla testa che quell’emendamento fosse giusto, quell’investimento sensato a prescindere dalla posizione personale del compagno Gianluca Gemelli. In teoria, nel merito del provvedimento, Renzi potrebbe anche essere d’accordo. Ma nella pratica il premier non può assolutamente sostenere il peso di un testo legislativo da cui a trarre vantaggi espliciti e cercati - questo il senso apparente delle intercettazioni - è il convivente di un ministro del suo governo. Le grane per l’esecutivo non sono però finite qui. Le opposizioni nemmeno se la prendono con Guidi più di tanto. L’obiettivo di M5S, Lega, Fi e Sel sono Renzi e, soprattutto, Boschi. Quel riferimento a «MariaEle» come la donna dell’ultima parola per inserire l’emendamento in legge di stabilità ha già fatto scattare tutte le armi di difesa di Palazzo Chigi. «È inaccettabile che sia stata tirata in mezzo lei – dicono i parlamentari renziani lasciando Roma per il week-end –. Lei è il ministro per i Rapporti con il Parlamento, valuta il merito degli emendamenti. Era Guidi che doveva dirle che il compagno era coinvolto, e non l’ha fatto». Insomma, il ministro delle Riforme sarà difesa a spada tratta. Probabilmente sarà lui stesso, il premier, ad assumere l’interim dello Sviluppo economico per qualche giorno. Il dicastero potrebbe poi essere affidato all’attuale viceministro Teresa Bellanova, ex dirigente cigiellina che ormai ha conquistato la fiducia di Palazzo Chigi risolvendo complicati tavoli di crisi. Meno accreditata è l’idea di coinvolgere nel governo l’ex presidente emiliano Vasco Errani: Renzi l’avrebbe portato in squadra già mesi fa, ma la premessa è un nuovo clima con la minoranza che per il momento non sembra a portata di mano.