sabato 15 giugno 2024
L'entroterra di Venezia alle prese con una complessa trasformazione urbana che porta con sé problemi ma rivela anche inaspettate risorse. L'impegno della parrocchia di Sant'Antonio
Il sottopasso ferroviario liberato dallo spaccio

Il sottopasso ferroviario liberato dallo spaccio - Web

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Il segnale che tutto stava per cambiare è stato il rombo dell’elicottero. Il blitz invernale delle forze dell’ordine ha bonificato il tunnel che unisce Mestre a Marghera, ma l’umanità dolente che da anni si condensa sotto i binari ha finito in questi mesi per straripare proprio nella zona a sud della ferrovia. «Ho trovato tossicodipendenti sul sagrato, sotto i portici, persino in chiesa – racconta don Mauro Haglich, guida della storica parrocchia di Sant’Antonio e vicario foraneo di Marghera -. Cercano angoli dove appartarsi e iniettarsi eroina, mentre i pusher spacciano nelle siepi della piazza. È capitato anche di dover pulire una striscia di sangue proprio qui…» dice indicando il pavimento all’ingresso della chiesa. Sono le 11 del mattino e sotto il porticato dorme un senza dimora.

Don Mauro Haglich parroco di Sant'Antonio

Don Mauro Haglich parroco di Sant'Antonio - Web

Don Mauro ha scritto una lettera al Comune di Venezia per segnalare l’emergenza droga. La voce è arrivata ai giornali locali e il caso è esploso. «Ma io non cercavo certo visibilità – spiega il parroco –: ho voluto solo denunciare una situazione che ormai stava diventando insostenibile». La gente, esasperata, ha apprezzato il suo gesto: qualcosa ultimamente sta cambiando, i controlli di polizia e carabinieri sono aumentati. Dalle istituzioni però non è che siano arrivati grandi applausi. «Don Mauro, forse non c’era bisogno…» ha sbuffato qualche tutore dell’ordine. Verità scomode, politicamente scorrette: la periferia percepita come un fastidio da sopportare. Pochi chilometri più in là sorge Venezia, ma è come se orbitasse in un’altra galassia. Nell’ultimo ventennio Marghera ha mutato pelle. Una volta assorbiva manodopera dal “retroterra”, come rilevò Guido Piovene nel suo “Viaggio In Italia”, mentre le maestranze di oggi vengono da lontano. Da Fincantieri, una delle poche industrie rimaste, entrano ed escono soprattutto operai venuti dal Bangladesh. Hanno messo radici in città, molti nelle “torri” del quartiere Cita. Quando un vecchio residente se ne va, subentrano i bengalesi: condividono gli appartamenti, una stanza per famiglia. «Per cucinare fanno i turni» spiega don Mauro. Se non le comprano i migranti, le vecchie case si tramutano in B&b per turisti low cost. Marghera è una terra di passaggio per tanti, per motivi molto diversi fra loro.

Un murales a Mestre sormontato dal filo spinato

Un murales a Mestre sormontato dal filo spinato - Web

I tossici vagano in un limbo. «Arrivano da tutto il Veneto, anche dal Friuli: difficile tentare un approccio, perché ogni giorno le facce cambiano». Ci provano gli scout, ma non è facile. «Qui l’eroina costa poco. La spacciano i nordafricani, ultimamente ci avevano provato anche alcune badanti dell’est e persino le ragazzine per arrotondare». «Dalle mie parti invece la piazza è in mano a persone che arrivano dalla Nigeria e dal Senegal» aggiunge don Fabio Mattiuzzi, parroco del Sacro Cuore di Mestre. Le sue parti sono anche peggio di Marghera. Tra via Aleardi, via Gozzi e viale Piave, a nord della stazione, sembra di essere in alcuni quartieri sudafricani: muri alti, cancellate appuntite, addirittura filo spinato a militarizzare condomini e villette. Il filo spinato spunta anche in via Pascoli, accanto all’Agenzia Dogane e Monopoli. Persino la chiesa è sigillata da una pesante inferriata. «Ogni domenica alle 7.30, prima della Messa, faccio il repulisti sul sagrato, spazzando siringhe, lattine e altra sporcizia – sospira don Fabio -. Durante la settimana tengo il portone chiuso, ma la cappelletta la lascio sempre aperta, perché altrimenti sarebbe come ammettere la sconfitta». Sfiniti e impauriti dalle continue intrusioni, gli abitanti (italiani, ma anche stranieri) hanno alzato le barricate: c’è chi si è trovato ospiti indesiderati pure sul pianerottolo. «Come si vive qui? Ho visto posti migliori. Anche da me, l’altra notte, hanno scavalcato la recinzione» racconta un barista. «Ma cosa vuole, sparargli non si può, quindi la gente si arrangia così» sentenzia servendo il caffè. Poi scuote la testa, dimenticandosi di battere lo scontrino. La legalità, in certi contesti, diventa un’opinione.

Nella penombra dei portici di via Carducci, un pusher di origini maghrebine armeggia nervosamente con il cellulare tenendosi stretto il borsello a tracolla. Poco distante c’è via Piave, dove spuntano evidenti le tracce della metamorfosi urbana. Fino a pochi anni fa questo era il boulevard di Mestre, adesso è un susseguirsi di kebab bar, ristoranti asiatici e centri di assistenza fiscale ai migranti: in mezzo, tante saracinesche chiuse. Le vie laterali diventano nascondigli. «A volte vediamo giovani che frugano dentro i cassonetti dell’immondizia, finché tirano fuori degli involucri. La polizia? Le pattuglie passano e ogni tanto scatta qualche retata, ma poi torna più o meno tutto come prima» dice una signora («non scriva il mio nome, non si sa mai»).

Un’integrazione difficile, lontana dalla narrazione retorica dei partiti. «La politica? Distante, assente – riflette amaramente don Mauro –. Questa è la sensazione. Io stesso mi trovo a gestire situazioni di cui dovrebbero occuparsi altri». Con il rischio di trovarsi di fronte a decisioni calate dall’alto, che potrebbero addirittura peggiorare le cose. «Su marginalità e povertà potrebbero almeno interpellarci: occorre evitare che si creino dei ghetti». Semmai, c’è una comunità da cementare. La parrocchia apre le porte ai cittadini bengalesi, che affittano le sale e il teatro per i loro eventi: in inverno era arrivato da Londra un celebre gruppo di “bangla pop”. Il dialogo segue anche sentieri inaspettati, come la pesca di beneficenza: i migranti fanno la fila per i biglietti. Ora don Mauro sta pensando a menu “halal”, per permettere pure ai musulmani di cenare alla sagra. La mano è tesa, e le genti che arrivano dal Bangladesh la stringono sempre più spesso. Non solo per ricevere, ma anche per dare. «Il fruttivendolo qui vicino ci porta la merce troppo matura, e noi la distribuiamo ai poveri. C’è anche chi offre lavoro agli italiani: servono mediatori culturali che aiutino i loro piccoli imprenditori». Avanti così, tra un passo avanti e uno indietro. Tra poco partono i Grest. «I bimbi del Bangladesh vengono al doposcuola, giocano nella nostra squadra di calcio – dice don Fabio – però al centro estivo non vengono, perché dicono che costa troppo. Ma ci sarà il primo animatore bengalese. Gli ho detto: patti chiari, qui c’è un’impostazione cattolica. Lui mi ha risposto: tranquillo don, sono mezzo ateo…»

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