«Non sono sparito dopo il decreto sicurezza: sono sempre qua a Bologna, ma sono diventato invisibile». Marcus ha 23 anni, viene dal Senegal e per due anni ha beneficiato dello Sprar in quanto richiedente asilo, quando ancora la possibilità di entrare nel circuito “buono” dello Sprar valeva anche per questa categoria. Alla partenza per il suo lungo viaggio, Marcus, non aveva idea di cosa lo attendeva: «Non sono arrivato in Italia perché sapevo che c’era lo Sprar, non l’avevo mai sentito nominare, ma mi ha salvato». Dice che rifarebbe la stessa scelta, verrebbe «lo stesso in Italia, rischiando la vita», anche se ora, dopo due anni “protetti” dal sistema di accoglienza, nonostante avesse trovato anche un lavoro, si trova a fare i conti con l’impossibilità di restare da regolare. Marcus ha avuto, a Bologna, strumenti di integrazione molto efficaci: «La scuola di italiano, un tirocinio formativo». Soffriva di disturbo da stress post traumatico e da trauma da viaggio: grazie alla presa in carico psico-socio-sanitaria del territorio e di un progetto adeguato per lui, è stato seguito e curato. Quando è uscito dal progetto Sprar ha beneficiato di contributi economici a supporto della sua piena autonomia. Pagava una stanza a un italiano, aveva una prospettiva di lavoro stabile dopo il tirocinio: «L’azienda in cui l’ho svolto mi aveva proposto tre anni di apprendistato ». Purtroppo la protezione umanitaria «è scaduta proprio nel periodo di attesa fra la conclusione del tirocinio e la possibilità di prendere servizio più stabilmente, ma soprattutto in coincidenza con l’abolizione di questo tipo di permesso: nonostante le prospettive positive ero, di fatto, senza lavoro. Quindi non ho potuto trasformare il mio permesso in “motivi di lavoro”, ma solo in “protezione speciale”, che non è rinnovabile né convertibile. Così, dopo due anni di investimenti fatti su di me, perché potessi avere un futuro qua in Italia, dopo che mi ero perfettamente integrato mi sono sentito dire che non potevo più restare». Marcus è diventato irregolare da un momento all’altro, senza colpe, senza ragioni: «Ho perso la possibilità di lavorare, il diritto alla salute, al dormitorio, alla residenza, alle cure». Marcus è invisibile, ma esiste: lo incontriamo all’Antoniano, che non nega un pasto né una parola di conforto a nessuno. Ma proprio per questo ora Marcus è diventato anche un “costo”: essendo irregolare non può essere rimpatriato, perché non ci sono accordi col suo Paese di origine, né tuttavia può sperare di tornare ad essere autonomo ed integrato, mentre prima produceva reddito. In generale ora la sua presenza contribuisce ad aumentare il senso di insicurezza delle persone che lo incontrano mentre “bighellona” per strada, mentre dorme sotto un portico. “Grava” sul sistema – pubblico e del privato sociale – a differenza di quanto sarebbe successo se avesse semplicemente proseguito il suo cammino di integrazione: «Io, le tasse, le avrei pagate volentieri» conclude. © RIPRODUZIONE RISERVATA
“Avvenire” racconta il Paese degli invisibili: le loro vite sono sospese, ai margini del sistema di accoglienza che non ha più posto per loro, con lo stop alla protezione umanitaria
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