Trecentodue euro al mese che, considerando 10 mesi di utilizzo del servizio, portano la spesa annua a famiglia a più di 3mila euro. Tanto costa mediamente in Italia mandare il proprio figlio all’asilo nido comunale, fra difficoltà di accesso, liste d’attesa infinite, alti costi e disparità economiche tra aree del Paese difficili da giustificare.A mettere sotto la lente il meccanismo da “terno al lotto” è un’indagine di Cittadinanzattiva, con esempi concreti e numeri da capogiro. A cominciare dai costi e dalle code: dal 2005 ad oggi le tariffe degli asili sono aumentate in media del 4,8%. In particolare, nel 2010/11, 26 città hanno alzato le rette di frequenza e 5 capoluoghi registrano incrementi a due cifre: Foggia (+54,6%), Alessandria (+24,3%), Siracusa (+20%), Caserta (+19,5%), Catanzaro (+19,4%). Dall’analisi di dati in possesso al ministero dell’Interno e relativi al 2009, emerge poi che il numero degli asili nido comunali ammonta a 3.424 (-0,4% rispetto al 2008) con una disponibilità di 141.210 posti (+0,8% rispetto al 2008). In media il 25% dei richiedenti rimane in lista d’attesa. Il poco edificante record va alla Sicilia con il 42% di bimbi in lista di attesa, seguita da Toscana e Puglia (33%).Numeri sconfortanti, cui si aggiungono quelli delle rette “impazzite”, con disparità enormi sul territorio: a Lecco la spesa per la retta mensile, di 537 euro, è 6 volte più cara rispetto a Catanzaro (80), il triplo rispetto a Roma (146) e più che doppia rispetto a Milano (232). Marcate differenze anche all’interno di una stessa regione: in Veneto, la retta più cara, in vigore a Belluno (525 mese per il tempo pieno) supera di 316 euro la più economica, a Venezia. Analogamente nel Lazio la retta che si paga a Viterbo (396) supera di 250 la più economica registrata a Roma. Al Sud, in Puglia tra la retta di Foggia (368) e quella di Bari la differenza è di 179 euro.Ma all’estero qual è l’offerta? Non sempre migliore di quella italiana. Nel 2002 l’Ue aveva posto come obiettivo entro il 2010 quello di avere asili per almeno il 33% dei bambini sotto i 3 anni. Nonostante l’ampliamento dell’offerta, la domanda soddisfatta in Italia e dell’11,3%, secondo l’Istat. In testa alle classifiche Ocse è sempre il Nord Europa, all’avanguardia nei servizi all’infanzia, largamente finanziati. Lo Stato in Italia, sempre secondo l’Istat, per l’infanzia si limita invece a spendere circa lo 0,15% del Pil. Inoltre il Piano nidi introdotto nel 2007 è stato rifinanziato e la legge nazionale di riferimento ha 40 anni: è la 1044 del 1971, la stessa che istituì gli asili nido. Nel 1972/76 si sarebbero dovuti aprire 3.800 nidi pubblici. Fino al 1983 ne sono stati aperti 1.388; al 2007 ne sono stati aperti 3.184.Altro nodo del problema è il personale: la legge regionale 12/2011 prevede infatti un nuovo rapporto 1 a 7 tra insegnante e bimbi. Ma questo, secondo Cittadinanzattiva, è solo virtuale. Vi sarebbero situazioni in cui una educatrice può trovarsi da sola con 15 bimbi piccoli. Insomma, cosa fa in Italia chi non può permettersi una baby-sitter o il nido privato? Usa la rete familiare: nonni, amici o vicini di casa. Dei "nidi famiglia", spesso con contributi comunali o regionali, nel 2009/2010 ha usufruito solo il 2,3% dei bambini. Mentre le tagesmutter (le mamme di giorno) sono ancora poco diffuse.
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