La diplomazia e la
moral suasion esercitate dall’Europa non bastano più. «Ci sarà un motivo per cui, da parte della Commissione Ue, nessuno invoca una normativa comunitaria in grado di regolare la delicata materia degli sbarchi...» osserva subito Bruno Nascimbene, professore di Diritto dell’Unione europea e Diritto degli stranieri alla Statale di Milano. «...Il motivo è che semplicemente non esiste alcuno strumento comunitario. Né mai è esistito». Il contenzioso tra Italia e Malta andrà probabilmente oltre la fine della vicenda della nave Pinar, sbarcata ieri a Porto Empedocle. Se la sorte di chi era a bordo del mercantile è stata infatti affidata ai volontari delle Ong e alle forze dell’ordine, la ricostruzione di quel che è successo e delle responsabilità per l’accaduto è appena cominciata. «In assenza del diritto comunitario, la materia è regolata dai trattati internazionali» premette Nascimbene.
Da quali accordi in particolare? La Convenzione Sar del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare senza distinguere nazionalità o stato giuridico delle persone coinvolte, stabilendo oltre all’obbligo della prima assistenza, anche il dovere di far sbarcare i naufraghi in un luogo sicuro.
Quanto pesano invece gli accordi bilaterali? Sono facilmente aggirabili, come ha dimostrato in questi anni la Libia nei nostri confronti. Le convenzioni multilaterali marittime sono più precise e il governo si è comportato correttamente nel richiamare La Valletta alle proprie responsabilità.
Il commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot ha spiegato il comportamento di Malta sostenendo che ha 400mila abitanti e un territorio limitato rispetto alla domanda di accoglienza dei 154 immigrati a bordo della Pinar. In realtà Malta va considerato come un «porto sicuro». Non è la Libia o la Tunisia, Stati in cui la sicurezza delle persone in arrivo potrebbe essere a rischio. Peraltro questa nave, almeno prima dell’intervento del mercantile Pinar, era localizzata in acque maltesi. Anche il fatto che, in quanto isola, Malta non possa accogliere nessuno, regge fino a un certo punto. Pure Lampedusa è un’isola, ciononostante gli sbarchi da noi continuano.
Cosa può fare concretamente l’Europa? L’Unione europea ha gli strumenti per monitorare i flussi di ingresso degli irregolari, ma non per intervenire dal punto di vista operativo. Esiste un’agenzia di controllo delle frontiere, il Frontex, ma fa un lavoro più o meno analogo a quello che da noi svolge la guardia costiera. Serve una disciplina che possa costringere i governi a farsi carico di queste emergenze, con la possibilità per le istituzioni comunitarie di aprire delle controversie e di minacciare delle sanzioni contro chi è inadempiente. A quel punto, il diritto comunitario recepirebbe le norme stabilite nei trattati internazionali e una violazione dei patti potrebbe finire davanti alla Corte di giustizia europea.
Sul campo, invece, cosa cambierebbe? Sarebbe necessario creare forze congiunte di soccorso da parte dell’Ue, con il consenso di tutti gli Stati, ma al momento non c’è nessuna discussione concreta su questo. Le regole europee sarebbero più stringenti di quelle internazionali, ma temo che con l’approssimarsi delle scadenze elettorali per l’Europarlamento i tempi per eventuali interventi normativi sulla materia si allungheranno fino alla fine dell’anno.
Sul piano dei diritti umani, come contemperare il bisogno di solidarietà con la domanda di sicurezza? In caso di guerra, prevale senza dubbio il principio di solidarietà per chi arriva da zone di conflitto. In un caso come quello della Pinar, poi, in gioco c’era anche la tutela delle persone a bordo, dagli immigrati all’equipaggio, per non parlare delle donne incinte. Il diritto umanitario non fa sconti a nessuno e chiede garanzie per tutti, anche in situazioni estreme.