giovedì 10 febbraio 2011
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«La gente spariva di notte». L’incubo è rimasto negli occhi di Piero, che allora aveva nove anni e, di notte, vide portar via suo padre, legato col filo di ferro: erano le due tra il 3 e il 4 maggio 1945, quando nella sua casa di Gallesano, alle porte di Pola, in Istria, fecero irruzione in quattro, tre in divisa scalcinata e berretto con la stella rossa di Tito, uno in abiti civili che parlava italiano: «Seguici in caserma, ti dobbiamo interrogare». La guerra è appena finita, i tedeschi sono sconfitti, e mentre il resto d’Italia festeggia la liberazione dal nazifascismo e l’arrivo degli alleati anglo-americani che portano ventate di rinascita, nella Venezia Giulia la "liberazione" avviene per opera degli jugoslavi: al nazismo succede il comunismo. E le foibe. «Mentre gli altri italiani scendevano in strada gioiosi, noi conoscevamo i giorni dell’ira e delle vendette. E andavamo a dormire col terrore di non svegliarci nel nostro letto».Suo padre era "colpevole" di avere un negozio di generi alimentari, altri di essere stati maestri di scuola, postini, messi comunali, sacerdoti, carabinieri... L’ordine era di de-italianizzare Istria, Fiume e Dalmazia, e il genocidio fu scatenato in due ondate: la prima dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando sparirono in foiba settecento persone nella sola Istria, la seconda a guerra finita, dal maggio del 1945 in poi, quando gli jugoslavi occuparono l’intera Venezia Giulia fino a Trieste. «Nel ’43 in famiglia avevamo avuto il primo di sette lutti – racconta oggi Piero Tarticchio, 75 anni, artista e scrittore, testimone in centinaia di scuole italiane di quanto avvenne sull’altra sponda dell’Adriatico – quando don Angelo Tarticchio, cugino di papà, venne arrestato, torturato, mutilato orrendamente e poi, ancora vivo, gettato in foiba con una corona di filo spinato calcato sulla testa per dileggio. La sua salma fu recuperata dai vigili del fuoco di Pola insieme ad altre 243...». Al funerale dello zio sacerdote Piero andò tenendo per mano suo papà: «Ricordo che me la stringeva forte. Non poteva prevedere che un anno e mezzo dopo sarebbe toccato a lui».La storia di Piero – come avviene in altri olocausti – è tragicamente ripetitiva: nelle case gli sgherri di Tito che irrompono, il furto volgare di tutto ciò che possono arraffare, il pretesto di un interrogatorio sulla base di accuse assurde, un padre o una madre trascinati via e spariti nel nulla. Come rivelano montagne di documenti, gli alleati anglo-americani sapevano e lasciavano fare. Racconta Tarticchio: «Milovan Gilas, teorico del Partito comunista jugoslavo, nei suoi diari annota "dovevamo fare in modo che gli italiani se ne andassero da quella terra e così fu fatto". Nel 1992 lo ribadì in un’intervista a Panorama, confermando una pulizia etnica decretata ufficialmente». Negli occhi del piccolo Piero, e di centinaia di bambini come lui, l’ultima immagine del padre spinto fuori con il calcio del fucile e mai più tornato. Nelle orecchie il pianto delle donne: «Ancora oggi non riesco ad ascoltare le donne che piangono, sto male...». E in tutte le case, poi, una madre che i figli di allora, sopravvissuti alla mattanza, oggi raccontano così: «Con un coraggio impressionante andò al comando della polizia segreta di Tito a Carlovac a chiedere notizie del marito. Ricordo un particolare: dopo la deportazione di papà il mio solo privilegio fu di dormire con la mamma nel lettone e lei, sapendo del mio trauma, mi lasciava toccare il lobo del suo orecchio.... aveva un orecchino di oro e perla, al ritorno da Carlovac non lo aveva più». Per qualche settimana suo padre fu recluso nel castello di Pisino, a 30 chilometri in treno da casa, e tutti i giorni madre e figlio si recavano là sotto: «C’era un’inferriata e a uno a uno i prigionieri si sporgevano e salutavano. Un mattino nessuno si affacciò più». Un vecchio raccontò che erano stati caricati sui camion e portati a Fiume per il processo, ma a Fiume non giunsero mai.«Tutti gli anni, nel giorno dei Morti, mi reco in Istria – racconta Tarticchio – e porto un mazzo di fiori in un cimitero qualsiasi... Sono bellissimi i cimiteri istriani, andateli a vedere. Scelgo la tomba più disadorna, la tomba di uno sconosciuto, non guardo nemmeno se è di un italiano, è il solo modo che ho per onorare mio padre. Sulle foibe però non vado, fa troppo male: i lager sono diventati veri santuari, sulle foibe nemmeno una croce».Come tutte, anche la storia di Piero finisce con la diaspora. «La mamma, saputo che rischiavamo lei i lavori forzati, io il collegio di rieducazione comunista a Maribor, raccolse le 143 lire che ci restavano e mi portò via a piedi di notte, strisciando sotto i reticolati, fino a Pola, poi da lì sulla motonave Trieste l’addio per sempre alla mia amata terra che il Trattato di Parigi il 10 febbraio, oggi Giorno del Ricordo, nel ’47 cedette alla Jugoslavia: l’Italia intera aveva perso la guerra, ma solo noi pagavamo il suo debito». Iniziava così l’esodo dei 350mila. Per 57 anni la loro storia fu negata da quell’Italia per cui avevano perso tutto, e che anche oggi ha la memoria corta: «Ho sfogliato 31 libri di storia per i licei, solo due raccontano le foibe... Ma quale memoria pretendere da un’Europa che dimentica anche se stessa, che nega le proprie radici cristiane e stacca i crocifissi dai muri?».
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