Chilometri di fili, scrivanie sommerse di cartelle cliniche, i ricercatori che studiano accampati nei corridoi, perché manca lo spazio, ma c’è così tanto da fare: il Centro Cyclotron dell’Università di Liegi è, a oggi, l’unico posto al mondo in cui le domande sullo stato vegetativo trovano una risposta. Non è la risposta del cuore, o della fede, o dell’etica: quelle sembrano non bastare a chi ragiona in termini di 'evidenze' sulla vita umana. A Liegi la risposta è quella oggettiva della scienza, e a piantartela davanti agli occhi è un fisico nucleare che dell’etica potrebbe persino infischiarsene. Non fosse per quella videata in cui un cervello comincia a colorarsi, a dare segnali di coscienza e attività là dove era impossibile persino sognarle. Non fosse che il cervello appartiene a un malato in stato vegetativo da 5 anni – la giovane vittima di un incidente stradale, per essere precisi – in un Paese come il Belgio, dove l’eutanasia è pratica legale già da tempo. Da qualche mese è lui il protagonista indiscusso del laboratorio di Steven Laureys e lo è anche della ricerca appena pubblicata sul New England Journal of Medicine, che tanto ha fatto scalpore sui giornali e in tv. Perché questo 'vegetale', considerato privo di ogni traccia di coscienza e percezione di sé, incapace di seguire gli oggetti con gli occhi e inchiodato a un letto senza via di scampo, senza battito di ciglio, può comunicare. Può dire sì o no, se qualcuno gli chiede conferma del suo nome. Può spostarsi, mentalmente, e allo stesso modo persino giocare a tennis. Pensare che a vederlo dal vetro dell’o- spedale, Alan (lo chiameremo così, per questioni di privacy), è un caso disperato. Proprio come Rom Houben, l’uomo che ha commosso il mondo raccontando i suoi sedici anni di urla nella gabbia dello stato vegetativo, e che oggi è a Liegi, per una visita di controllo. Lo vedi coricato nello scanner, coi suoi movimenti inconsulti, senti la voce della dottoressa Audrey che gli dice «relax», attraverso il microfono: nella stanza ci sono sei medici, fuori altrettanti praticanti e ricercatori, ed è incredibile, perché al centro di questo consesso iperspecializzato, al cuore di tanta attenzione e del dibattito che si innesca davanti alle immagini della risonanza magnetica, c’è quella che per alcuni è solo una vita spezzata, inutile, un fantasma d’essere umano. Non qui. 'Miracoli' di Liegi, li chiamano: in realtà non c’è alcun prodigio in corso, se non quello di vedere la vita – e non smettere di cercarla – là dove sembrerebbe aver vinto la morte. Il Cyclotron non è l’Enterprise, non siamo nello 'spazio profondo': il palazzo grigio è un po’ scalcinato, un puntino sulla collina universitaria di Liegi, e la struttura è pubblica, finanziata nei tempi e nei modi noti anche in Italia, efficaci magari, ma lenti. Ci sono i macchinari che troveresti in qualsiasi altro ospedale o centro di ricerca: la Pet (la tomografia a emissione di positroni), la Rmnf (la risonanza magnetica nucleare funzionale). Ci sono gli specialisti che preparerebbe ogni università: neurologi, psicologi, fisici, chimici. Eppure qui c’è una rivoluzione in corso, che attira le maestranze intellettuali di mezzo pianeta e non accenna ad arrestarsi. Inizia con Athena, Audry e Marie Aurélie: età media 25 anni, la prima greca, la seconda fiamminga, la terza italobelga. Insieme, sono l’enciclopedia di neurologia applicata ai disordini di coscienza che tutti gli specialisti del campo vorrebbero in tasca. La mattina vanno in corsia, incontrano le famiglie dei pazienti, effettuano i test comportamentali sui vegetativi: la pressione sulle dita, il giro della stanza con lo specchio (i pazienti in questo seguono più facilmente la propria immagine con gli occhi, che quella di un oggetto), le stimolazioni sonore. È il protocollo aggiornato della Coma recovery scale, quello che qui è bastato già un centinaio di volte per riconoscere una diagnosi sbagliata su un paziente (risultato non essere affatto vegetativo) e che è facilmente reperibile online. Eppure il resto del mondo – tranne Athena, Audrey e Marie Aurelie – sembra non saperlo. Il pomeriggio tocca agli esami: le risonanze, le tomografie, in una parola le partite di tennis. In un altro laboratorio Andrea Soddu, fisico delle particelle italiano convertito alle neuroscienze, analizza le immagini del cervello dei pazienti a riposo, ottenute con la risonanza. Immagini e analisi, anche qui nessun prodigio. Dopo una settimana la normalissima riunione di confronto, in cui tesi e antitesi sono messe in campo, e si giunge a una diagnosi condivisa. Steven Laureys, che è il responsabile del Coma group, lo ripete di continuo a chi incontra, a chi telefona, ai convegni e alle conferenze: «Quello che facciamo può essere fatto da qualsiasi parte, si deve solo cominciare». Non basta: nel pomeriggio arrivano altre cinque chiamate, una è dall’Italia. È la mamma di Luca, vive a Milano, suo figlio è immobile e in stato vegetativo da dodici anni. Chiede aiuto. Vorrebbe che i medici di Liegi lo vedessero, perché «siete gli unici a vedere veramente ». Sarebbe disposta a dividere la spesa con un’altra famiglia, anche loro hanno un figlio così. Non hanno abbastanza soldi per il viaggio però, e forse il ragazzo non è trasportabile: «Perché i medici che ho incontrato finora non mi hanno detto niente di più?». Stato vegetativo, ci sono risposte. Basta vederle. Il professor Steven Laureys (il medico al centro) insieme a due assistenti del Centro Cyclotron che dirige all’Università di Liegi, durante l’esame clinico a un paziente