Prosegue la campagna del Nord Africa della premier Meloni, dopo la visita ad Algeri (nella foto) oggi è a Tripoli - Ansa
Oggi la premier Giorgia Meloni sarà in visita a Tripoli, dove incontrerà il vertice politico della Libia. Nell'incontro si parlerà certamente dei migranti e di come fermarli, impedendo loro di tentare l'attraversamento del Mediterraneo. È noto che nella maggior parte dei casi queste povere persone, in fuga da fame, guerre e inguiustizie, sono trattate in modo disumano e usate come oggetti nel traffico di uomini fiorente in quel Paese. Ma quello che conta per Roma è l'accordo che sarà siglato a margine del viaggio della prima ministra: un'intesa da 8 miliardi di dollari in relazione all'esplorazione e allo sfruttamento di due giacimenti prospicienti la costa occidentale libica. La joint-venture paritetica tra l'Eni italian e la compagnia petrolifera statale libica Noc dovrebbe operare in due aree esplorative in un blocco marino dove è già stato scoperto gas nelle strutture "A" ed "E", circa 140 chilometri a nord-ovest di Tripoli. I due giacimenti hanno riserve stimate per 6 trilioni di piedi cubi e per svilupparli saranno necessari circa tre anni e mezzo. Al ritmo di 850 milioni di piedi cubi al giorno, la produzione potrà andare avanti per 25 anni, ha previsto: in metri cubi, si tratta 8,78 miliardi l'anno. Un affare gigantesco di sfruttamento dei giacimenti fossili (ndr).
Le sabbie mobili libiche aspettano Giorgia Meloni per misurare le intenzioni della prima premier donna d'Italia nell’ex colonia dove non c’è neanche bisogno di mascherare i volti per sapere con chi si ha a che fare. I clan che spadroneggiano nel Paese, aprendo e chiudendo a piacimento le rotte migratorie del mare, quelli che si arricchiscono con il contrabbando di petrolio, le milizie che controllano il territorio in un connubio di tribalismo e mafia, sono oramai seduti ai tavoli che contano.
Dal ministro dell’Interno al capo del Dipartimento contro l’immigrazione illegale fino al direttore dell’accademia della Marina militare, sono tutti nomi a cui l’Interpol ha dedicato più di un alert in questi anni. L’ultimo padrino a raggiungere i piani alti è Emad Trabelsi, segnalato dalle Nazioni Unite per essersi arricchito imponendo una tassa personale di 3.600 dollari per ogni autocisterna di nafta di contrabbando che dalla Libia si dirige verso la Tunisia.
I report degli investigatori Onu e le reiterate segnalazioni degli attivisti locali, lo indicano da almeno cinque anni come uno dei campioni nel disprezzo dei diritti umani. Nei giorni scorsi Trabelsi ha incontrato funzionari della sicurezza italiani a cui ha promesso un freno alle partenze dei barconi. Parole scritte sulla sabbia. I clan negli ultimi mesi si sono attrezzati per trasferire i migranti appena oltre il confine con la Tunisia e da lì far salpare decine di zattere in ferro, assemblate in fretta senza che mai si riescano a individuare i cantieri navali che dalla sera alla mattina varano i peggiori barchini mai visti in anni di migrazioni.
La mano pesante sui migranti è affidata a un altro capobanda che dopo aver combattuto nella difesa di Tripoli, aggredita dalla soldataglia del generale di Bengasi Haftar, si è conquistato i galloni di fedelissimo del premier Dbeibah. E’ Mohammed al-Khoja, accusato da varie organizzazioni internazionali e dalle agenzie Onu d’essere legato al business del traffico di persone. Ora guida il Dipartimento contro l’immigrazione illegale (Dcim) che gestisce i campi di prigionia statali nei quali anche nell’ultima relazione del segretario generale Onu Antonio Guterres, firmata il 9 dicembre scorso, migranti e profughi «continuano a essere detenuti arbitrariamente in condizioni disumane».
L’intelligence italiana si è mossa con circospezione nelle ultime settimane allo scopo di rassicurare proprio gli uomini di Bengasi, e in particolare i fedelissimi di Fathi Bashagha, ex ministro dell’Interno di Tripoli che dopo aver fallito la nomina a capo del governo è passato dalla parte dell’ex nemico Haftar, facendosi nominare capo del governo ribelle di Tobruk, sorretto militarmente proprio dalle fazioni federate dal generale.
Alludendo al possibile arrivo di Giorgia Meloni a Tripoli, Bashagha nei giorni scorsi si è infatti «sorpreso» per gli incontri con un «governo scaduto» come quello guidato da Abdul Amid Dbeibah, che avrebbe dovuto cedere il passo alle prime elezioni democratiche oltre un anno fa, ma che con vari pretesti rimane alla guida di Tripoli.
Nel solo mese di dicembre, dopo non aver mosso un dito per quasi un anno, le forze navali della Cirenaica, coinvolte fra l’altro nella cattura e nella brutale prigionia dei pescatori siciliani di Mazara del Vallo, hanno intercettato in mare e riportato a terra circa 3.400 migranti, poi gettati in prigioni sconosciute: una mano tesa all’Italia, che proprio in Cirenaica è in cerca di accordi energetici stabili. Dall’altra parte a controllare il ricco giacimento di Zawyah e i traffici illeciti di uomini, armi e oro nero, ci sono gli uomini della milizia “al Nasr”, i cui capi sono tutti sottoposti a sanzioni Onu.
Tra essi il feroce “Bija”, quel maggiore Abdurahman al Milad che nel 2017 già aveva dato prova di poter contenere il traffico di migranti, in cambio di maggiore sicurezza per le estrazioni petrolifere dirette verso la Penisola, dopo essere stato riservatamente ospitato nel nostro Paese nel corso di vari incontri in Sicilia e nei ministeri romani. Ora Bija è il responsabile della formazione dei futuri comandanti delle motovedette libiche donate dall’Italia.
Ma non è di questo che si parlerà durante gli incontri con Meloni. In Libia, del resto, il vero prezzo del petrolio e del gas viene stabilito nella borsa delle vite a perdere. E chiunque intende avere più idrocarburi e meno migranti, incuranti del sostegno diretto alla filiera della tortura, deve trattare con i capimafia. Anche se hanno un titolo da ministro.
L'Eni in Libia - .