Martina Levato a San Vittore, in carcere; suo figlio in una «comunità per minori, anche di tipo familiare». Il Tribunale dei Minori di Milano ha dunque preso la sua decisione. I parenti, fino al quarto grado, potranno vedere il bambino, compresi i genitori sia pure «con modalità protette». Disattese dunque le richieste dei legali della donna, condannata a 14 anni, assieme al complice e padre del bambino, Alexander Boettcher, per aver sfigurato con l’acido Pietro Barbini (per altre aggressioni simili sono in attesa di processo). Niente Icam, la struttura carceraria per madri con figli piccoli, né comunità di don Mazzi, cosa peraltro possibile sono in caso di arresti domiciliari, già negati alla donna. Il provvedimento del Tribunale, presieduto da Antonella Brambilla, contiene parole molto dure. Ricorda come Martina Levato abbia sostenuto di aver colpito Barbini «per purificarsi dai rapporti sessuali intrattenuti con soggetti diversi dal suo partner e poter così diventare una madre e una compagna degna». La donna, quindi, aveva «subordinato il progetto procreativo e genitoriale al programma criminoso, sprezzante non solo delle possibili conseguenze sul piano della propria libertà personale, ma anche di quelle che sarebbero ricadute fin dai primi mesi di vita sul bambino, sulla propria possibilità di prendersi cura di lui in una condizione di normalità». Se poi Alexander ha una «componente sadica», la «mancanza di empatia» di Martina si è manifestata anche «nel corso della gravidanza come incapacità di immedesimarsi, assumere un atteggiamento tutelante nei confronti del bambino». Per i giudici, quindi, non «vi sono sufficienti garanzie che la madre sia in grado di accogliere, ascoltare e comprendere i bisogni del figlio, in una fase in cui i bambini si esprimono con modalità che richiedono una specifica attivazione della sensibilità materna». La conclusione è durissima: le azioni della donna denotano, «sia nella loro gravità che nel complesso dei motivi che sembrano a essa correlati, un’assenza di pensiero e di sentimento rispetto alla vita che si stava formando e una completa preponderanza di aspetti inerenti alla dimensione aggressiva e rivendicativa». Per questi motivi, secondo i giudici entrambi i genitori del bambino non sono in grado di potersi occupare adeguatamente del figlio. Nei giorni scorsi era stata fatta notare una scarsa attenzione verso le vittime della coppia. Ieri è intervenuto Andrea Orabona, l’avvocato di Stefano Savi – secondo le indagini sfigurato come Pietro Barbini – con una puntualizzazione opportuna: «Il paradosso è la vittimizzazione della coppia a cui, si dice, sarebbe stato strappato il bimbo. In realtà il tema centrale della vicenda sono le aggressioni micidiali che hanno causato sofferenza alle vittime. Capisco la situazione del bambino, ma non dimentichiamoci delle vere vittime».