Il vuoto normativo c’è ed è evidente. Ora perciò tocca al Parlamento disegnare norme certe, anche se è il come il nodo su cui i politici adesso iniziano a ragionare. La breccia aperta nel muro dalla Consulta sulla diagnosi pre-impianto (pur con molti paletti e nuovi criteri da fissare), rischia però – se non supportata da pareri scientifici adeguati – di diventare una voragine. I giudici hanno agito «con delicatezza» esordisce il deputato Udc Paola Binetti, non dicendo che la diagnosi preimpianto è sempre consentita, ma «fissando gli stessi limiti stabiliti dalla 194». Una «piccola apertura», insomma, basata sulla logica «di ridurre il danno». Il vulnus nella legge comunque c’è e, per la parlamentare di Area popolare, «paga uno scotto di natura ideologica », quindi il vuoto innanzitutto è «culturale». Dunque solo in parte il tema è il pronunciamento dei giudici o la legge, conclude la Binetti, la questione è «chi interpreta la norma». I magistrati della Corte costituzionale, comunque, chiamano chiaramente in causa il legislatore. Ma non è solo il Parlamento, «si potrebbe pensare a interventi governativi o ministeriali». L’ex sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella (Ncd) ha chiaro in mente infatti dove intervenire. La lista delle patologie gravi per cui è ammessa la diagnosi pre-impianto – sottolinea perciò – potrebbe comprendere «tutte quelle che con certezza sono fatali per il bambino nel primo anno di vita». In più, vanno posti «seri controlli e rigide regole di accreditamento», è il suo modello di garanzia per donna e nascituro, magari ipotizzando che la diagnosi «possa essere eseguita solo da strutture pubbliche». Proprio chi ora 'dovrebbe' dar seguito alla sentenza, difatti chiede chiarezza nelle norme, a partire da un assunto: la vita è un dono e va difesa sempre. Non si può pensare di giustificare fenomeni di questo tipo – sostiene così Filippo Maria Boscia, presidente nazionale dell’Associazione medici cattolici italiani – oppure ostacolare la venuta al mondo di ciascuna vita», alla quale spetta il riconoscimento di diritti sociali, ma «soprattutto protezione, rispetto e accoglienza nell’ambito della famiglia, tassello sociale centrale e irrinunciabile». Le coordinate vanno quindi date a partire da una consapevolezza culturale, prima che politica. Anche molti parlamentari, nell’accingersi a ragionare su come riscrivere i criteri di accesso alla diagnosi pre-impianto, vorrebbero saperne di più. Certo «vanno messi paletti a una deriva eugenetica», ma il problema della responsabilità su questioni così delicate «è una questione da affrontare bene nel dibattito politico». Il deputato del Pd Ernesto Preziosi, comunque, parte dal presupposto che «la procreazione non può essere totalmente un tema demandato alla scienza». Perciò, nel ridisegnare i confini al divieto imposto dalla legge 40, occorrerà anche «definire la prospettiva culturale» e informare il più possibile, perché sia la politica sia l’opinione pubblica hanno molta confusione in testa. A preoccupare inoltre il suo compagno di partito, Giuseppe Fioroni, è il fatto che «il Parlamento venga chiamato a scrivere ricette» senza le giuste conoscenze, visto che se «non correttamente supportato dalla scienza rischia di scivolare su un tema tanto delicato quanto intimo». La sua 'ricetta', così, è fare in modo che «il governo chieda un parere alle Camere», che ne discuterà dopo aver sentito «le commissioni scientifiche e le massime istituzioni sanitarie del nostro Paese». Nel rispetto del pronunciamento della Consulta, «non è pensabile aprire una breccia così» , dice invece senza mezzi termini il medico e parlamentare di Forza Italia Benedetto Fucci, contrario a priori alla diagnosi pre-impianto, perché significa mettere i presupposti a che «questo varco si allarghi in futuro», con il rischio di arrivare a scelte sbagliate per le donne e il nascituro.