lunedì 29 luglio 2024
L'ordine dei giornalisti sul colloquio intercettato tra Nicola Turetta e il figlio Filippo, in carcere per il femminicidio Cecchettin: non era di interesse pubblico
Il padre di Filippo Turetta durante il colloquio in carcere

Il padre di Filippo Turetta durante il colloquio in carcere - ANSA

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Alla fine si è dovuto scusare lui per il colloquio che ha avuto con suo figlio in carcere, anziché chi ha diffuso le parole di quell'incontro tra padre e figlio: privato, «senza alcun elemento rilevante per le indagini e, quindi, di interesse pubblico» (come ha scritto il presidente dell'ordine dei giornalisti Carlo Bartoli) e trapelato dalle pareti di un luogo di reclusione, dove peraltro faticano invece a essere comunicate notizie come: la morte di una persona, risse, pestaggi, gesti di autolesionismo, angherie e soprusi, rivolte, incendi...

«Chiedo scusa per quello che ho detto a mio figlio. Gli ho detto solo tante fesserie. Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Erano frasi senza senso. Temevo che Filippo si suicidasse», ha detto il papà del giovane in carcere per il femminicidio di Giulia Cecchettin. E ancora: «Quegli instanti per noi erano devastanti. Non sapevamo come gestirli, vi prego, non prendete in considerazione quelle stupide frasi. Vi supplico, siate comprensivi».

«C'erano stati tre suicidi a Montorio in quei giorni - ha ricordato -, ci avevano appena riferito che anche nostro figlio era a rischio, non ho dormito questa notte. Sto malissimo. Sono uscito di casa per non preoccupare ulteriormente mia moglie e l'altro mio figlio. Ora si trovano ad affrontare una gogna mediatica dopo quel colloquio pubblicato dai giornali. Io ed Elisabetta avevamo appena trovato la forza di tornare al lavoro - ha aggiunto -, abbiamo un altro figlio a cui pensare, dobbiamo cercare di andare avanti in qualche modo, anche se è difficilissimo. Domani chi avrà il coraggio di affrontare gli sguardi e il giudizio dopo quei titoloni che mi dipingono come un mostro. Ero solo un padre disperato. Chiedo scusa, certe cose non si dicono nemmeno per scherzo, lo so. Ma in quegli istanti ho solo cercato di evitare che Filippo si suicidasse».

Ha chiesto scusa, Nicola Turetta, ha pregato, ha supplicato e ha argomentato, di fronte alla shit storm montante sui social. E il tribunale virtuale non ha detto né sì né no; ha accennato - come l'oracolo di Delfi -, e ha emesso il suo verdetto mostrando clemenza. Il vento dei commenti è cambiato da: «Il frutto non cade mai lontano dall'albero», tesi sostanzialmente condivisa anche da qualche psicologo (dal quale magari si richiederebbe qualcosa di più professionale) a: «Che giornalismo di m...». E va bene così, se serve a chiuderla qui, prima che qualcuno si faccia male o soffra più di quanto già accade.

Anche il rischio che Turetta padre venga eretto a monumento del patriarcato sul quale lanciare guano sembra arginato, per ora. Quanto al patriarcato - inteso come custode di una tradizione di comodo e sistema di condizionamento che decide ciò che va detto, pensato e occultato -, di sicuro sui social ha lunga vita.

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