Visto da cinquecento piedi di altezza, il terremoto è blu e fa meno paura. Le tende del ministero dell’Interno interrompono la rilassante monotonia del verde abruzzese, che si arrampica sull’altopiano delle Rocche e si inerpica, ingrigendosi, verso il Gran Sasso. Visto da un CH47, il blu intenso delle tendopoli allestite dalla Protezione civile balza agli occhi più dei muri divelti, delle absidi schiantate e dei campanili smozzicati. È il segno che lì è arrivato il ' demone' ma anche che lì è arrivata la solidarietà degli uomini. Il nostro osservatorio è un ' Charlie' che i piloti di tutti gli eserciti chiamano chinook. È uno dei più grossi. Può sembrare vecchiotto, visto che il progetto l’ha firmato la Boeing nel 1947, ma è ancora molto efficiente in queste situazioni. Doppia elica, capace di trasportare carichi di nove tonnellate agganciandoseli sotto la pancia, il chinook è prezioso quando si devono salvare in fretta delle vite umane in zone di guerra. Oggi l’Abruzzo lo è, anche se il nemico è invisibile, sotterraneo. Insieme al più agile Ab412, il nostro Ch47 Charlie ha già volato cinquanta volte per trasportare i feriti dell’Aquila nei diversi ospedali. « Portiamo 24 barelle a pieno carico», spiega il comandante. Carmine Bartolino è un tipo tranquillo, ha una faccia da bravo ragazzo dei castelli romani; del resto, i top gun del primo reggimento Antares di Viterbo, che sfrecciano in questo cielo giorno e notte per trasportare medicine e feriti, sono gente così, tanto simile e tanto vicina a quegli abruzzesi che, là sotto, li aspettano. Visto da quassù, l’Abruzzo non sembra una terra in ginocchio. I palazzoni moderni dell’Aquila mimetizzano bene la loro sofferenza, ma le ferite ci sono. Nel centro storico, ma non solo. Sorvoliamo i tetti afflosciati e travi spezzate come stuzzicadenti. Alcuni palazzi del Settecento sembrano castelli di sabbia su cui è passata un’onda feroce. La tragedia dell’Aquila appare più piccola dal cielo. L’altezza modifica la prospettiva e anche le emozioni. Che virano decisamente quando dal finestrino appare la basilica di Collemaggio. L’abside è affondata. Sembra che dai detriti oggi emerga solo la croce del sarcofago di Celestino V. Il sole inonda il cuore della Perdonanza, della devozione aquilana, delle tradizioni. Le pale dell’elicottero sovrastano un mozzicone di campanile e la cattedrale pugnalata dal sisma: più si scende di quota, più le facciate sfregiate, le vetrate in frantumi, le colonne spezzate certificano che le stime – il 70 per cento dei centri storici sarebbe lesionato o distrutto – sono realistiche. Tuttavia, mentre l’elicottero volteggia sui centri del disastro, ad ogni frazione, ad ogni campanile interrotto, ad ogni casolare spaccato, si scopre che c’è anche un Abruzzo diverso dalle impressioni e dalle paure. San Gregorio, Poggio Picenze, Paganica: è l’una e c’è gente nelle strade, nelle piazze, nei Nella foto grande, una panoramica di Onna ripresa da un elicottero. Foto piccole, la tendopoli allestita a Onna, il paese completamente evacuato dove sono morte quaranta persone; alcune case rase al suolo e la cattedrale dell’Aquila, gravemente danneggiata dalle scosse di questi giorni come altri monumenti del capoluogo abruzzese. Il centro storico della città è completamente devastato ed è stato chiuso giardini. Sotto di noi si srotola un Abruzzo che non è solo blu tendopoli, ma anche bianco come i gazebo e rosso come le canadesi, insomma una terra arcobaleno come i ripari di fortuna che gli abruzzesi hanno allestito pur di non allontanarsi da casa propria. Era prevedibile. Nei paesini di Silone e Scarfoglio, la sera la si aspetta seduti sull’uscio con il vicino, a veder se passa qualcuno, e la casa avita non la si abbandona neanche quando minaccia di trasformarsi nella tomba di famiglia. Così, anche ora che la terra continua a tremare, molti hanno disertato la tendopoli per riunirsi nel giardino di casa o bivaccare in auto sulla piazza del paese. Lontano dai muri insidiosi, d’accordo, ma non troppo lontano. Solo nelle strade di Onna non c’è anima viva. Quaranta morti: stiamo sorvolando la frazione fantasma dell’Aquila, difficile parlarne perché non è rimasto in piedi più nulla. Una macchia di rovine in mezzo ai prati. Si è salvato solo l’asilo delle suore, che se ne sta lì da 125 anni, giallo come i fienili che hanno ristrutturato per la villeggiatura e che adesso sono solo mucchi di polvere. Riprendiamo quota, la turbolenza creata dalle pale del Charlie risucchia tutto quel che trova per decine di metri. Ci lasciamo alle spalle i ' ragazzi' del sesto reggimento del Genio pionieri di Roma: autoribaltabili, pale meccaniche, martelli pneumatici e gruppi elettrogeni sono le loro armi. Sono arrivati là sotto poche ore dopo la prima scossa e non se ne andranno finché la 'guerra' non sarà finita e queste terre alte non avranno sanato le loro piaghe. Ci vorrà tempo. La cittadella di Poggio Picenza è un unico arabesco di tetti e detriti. La scossa ha sfregiato la facciata di una chiesa, tagliandola esattamente a metà. « Due domeniche fa abbiamo portato la statua di San Benedetto in processione lungo la via L’Aquila, e c’era tutto il paese. Ora il nostro santo è là sotto » , spiega, e quasi piange, don Luciano Bacale. La sua parrocchia, Bagno, inizia dove le case sfumano in mucchi di pietrame. Anche lui è salito sul Charlie, per vedere dall’alto cos’ha fatto veramente il ' demone' lunedì notte. Ha portato con sé una digitale ma se la rigira nervosamente tra le mani: «Non me la sento di fotografare questo scempio. Non avrei il coraggio di mostrare le immagini alla mia gente » . È crollata la parrocchiale, ma anche la chiesa di Sant’Angelo ostenta le proprie ferite, come pure il campanile della chiesa madre. «Da qui – avverte – non si vede bene quel che è avvenuto; non avete l’idea di cosa sia passato sopra il mio paese » . Sopra, sotto, dovunque. Il prete ammutolisce, passando sopra la casa- tomba di una delle vittime di Bagno: ' Era una bimba di otto anni – racconta – ma da qui non si capisce il disastro, dobbiamo scendere di più » . Un’altra virata, un’altra ancora e Charlie è su via XX Settembre. Altre strisce di detriti e di morte che s’intuiscono appena dal cielo. E sono ancor più invisibili, da cinquecento piedi, i soldati e i volontari, che, a migliaia, ricuciono queste ferite con una pazienza che il mondo ci invidia. Visti da quassù, si confondono anche loro con il verde dell’Abruzzo.