Una ricetta per un mutamento profondo o solo il riproporsi di un’utopia? Dopo quasi un decennio d’oblio, nel dibattito italiano torna ad affacciarsi il tema della riduzione dell’orario di lavoro come strategia per ridisegnare il mercato del lavoro e far tornare a crescere l’occupazione. Merito o colpa di Beppe Grillo che nel programma del Movimento 5 Stelle ha riproposto il vecchio slogan "Lavorare meno, lavorare tutti", ma in chiave ancora più radicale. Con l’idea, cioè, che occorra andare verso una settimana lavorativa di appena 30 ore (e poi 20), rispetto alle 36-40 previste attualmente nella legge e, ciò che più conta, nei contratti nazionali di lavoro.In realtà, Grillo sembra aver mutuato il tema da un lato dal dibattito apertosi fra intellettuali e sindacalisti tedeschi, con un documento firmato da un centinaio tra docenti universitari e rappresentanti del potente sindacato metalmeccanico IG-Metall (vedi articolo sopra). Dall’altro, dalle teorie di Serge Latouche e della scuola di pensiero della cosiddetta «Decrescita felice», secondo la quale è necessario cambiare radicalmente il paradigma produttivo e consumistico delle nostre società. La riscoperta di una questione certo non nuova, le cui radici si possono ritrovare addirittura nell’utopia sansimoniana di metà ’800 e che poi è stata variamente declinata dal pensiero socialista (e in parte cattolico) nel corso del Novecento, sviluppata da pensatori come il francese André Gorz o da noi Pierre Carniti, già segretario generale della Cisl, da economisti come il premio Nobel Wassily Leontief, fino al tentativo dell’allora segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, di imporre al primo governo Prodi la riduzione a 35 ore per legge, attuata invece in Francia da Martine Aubry, ministro socialista e figlia di Jacques Delors (vedi altro articolo sopra).Ma anche solo rispetto alla fine degli anni ’90, il quadro dell’economia mondiale è talmente mutato da far apparire quei dibattiti come qualcosa di "preistorico" e allo stesso tempo, però, da far riemergere la questione della riduzione dell’orario, assieme alla ripartizione di lavoro e ricchezza, come una sorta di "domanda ultima", di cambiamento radicale obbligato per poter voltare pagina rispetto ai guasti dell’economia turbo-capitalista. Una ricetta applicabile, dunque, o solo un’utopia ritornante? «Un’ispirazione di fondo giusta, ma difficilmente applicabile come terapia efficace per la crescita dell’occupazione», la definisce Bruno Manghi, sociologo del lavoro, già segretario della Cisl torinese e responsabile dell’ufficio studi di quel sindacato che, fino agli anni ’90 appunto, più si era speso sulla riduzione d’orario. «Il nodo resta la parità di salario – spiega Manghi – e quindi i costi di tale riduzione, sia per lo Stato sia come perdita di competitività per le aziende. Se poi un tempo era particolarmente avvertita l’esigenza di una riduzione d’orario per guadagnare "tempo di vita" oggi in realtà a prevalere è la questione salariale e dunque non c’è una forte richiesta di riduzione d’orario quanto di creazione di nuove occasioni di lavoro o di crescita degli stipendi».Già ma ridurre l’orario, nelle intenzioni di chi ripropone la questione, dovrebbe servire proprio a ripartire il lavoro esistente fra più persone, facendo così calare la disoccupazione. «Occorre distinguere i piani: in chiave difensiva la riduzione d’orario funziona assai bene – spiega il sociologo –. Lo dimostra la strategia adottata dalla Volkswagen negli anni scorsi oppure le migliaia di contratti di solidarietà firmati in Italia, che hanno permesso di salvare molti posti di lavoro con limitati sacrifici salariali (sovvenzionati da contributi pubblici, però). Oppure si è rivelata efficace la politica adottata dall’Olanda a partire dagli anni ’80, con la promozione del part-time secondo lo slogan "uno stipendio e mezzo per famiglia". Anche da noi ora il ricorso al part-time sta crescendo ma questo incremento è quasi sempre dovuto all’esigenza delle imprese di ridurre i costi (là dove c’era un posto di lavoro ora ce n’è "mezzo") e di un "contentarsi" dei lavoratori in attesa di un’occupazione a tempo pieno».Nessuna speranza dunque di far crescere il tasso di occupazione ripartendo orario e "posti"? «C’è il nodo della competizione internazionale, ma non è solo questo: non vedo quale autorità possa proporre o "imporre" per legge un tale cambiamento – conclude Manghi –. Lo Stato italiano? L’Unione europea? E come si finanzia tutto ciò per mantenere livelli salariali adeguati?». Solo le imprese e i sindacati allora possono arrivare alla riduzione d’orario per via contrattuale... «Sì, ma nelle singole realtà, non a livello generalizzato. Nelle piccole imprese è molto difficile. Ma più ancora bisogna pensare che c’è un intero mondo di lavoro autonomo e semi-autonomo per il quale parlare di riduzione d’orario per legge è quasi ridicolo...».Analisi simile quella di Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica all’università Cattolica e neoeletto deputato Pd: «In chiave difensiva la riduzione d’orario è stata ampiamente utilizzata e funziona bene. Assai diverso è immaginare una manovra programmatica di riduzione a tappeto dell’orario per tutti i lavoratori e per tutte le imprese. La conseguenza sarebbe un aumento dei costi notevole e quindi non una crescita ma un calo dell’occupazione». È possibile invece «incentivare alcuni strumenti come le banche ore o utilizzare la leva fiscale ad esempio per tassare di più lo straordinario – spiega ancora l’economista –. O ancora favorire il part-time verso la pensione per i lavoratori "anziani" che fanno da
tutor a giovani neoassunti. Anche queste misure, però, hanno un costo non indifferente».Chi boccia in maniera netta la soluzione è Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro rieletto nelle fila del Pdl, che pure proviene dalla militanza socialista: «La riduzione dell’orario per legge è una misura dirigista, già fallita dove è stata sperimentata e che mi sembra fuori dal mondo riproporre. Cosa diversa è la gestione flessibile degli orari nelle aziende. Utile sia ai lavoratori per conciliare meglio tempi di vita e di lavoro, sia alle imprese per massimizzare l’utilizzo degli impianti». Se la riduzione «è libera e responsabile – conclude Sacconi – allora può essere utile e positiva per tutti, se si tratta di un vincolo rigido, imposto dall’alto, allora diventa deleteria e potenzialmente disastrosa come sono le scelte ideologiche».