martedì 17 luglio 2012
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Cita Einaudi, con un occhio ai predecessori Scalfaro e Cossiga. Iniziato il settimo e ultimo "giro" sul Colle, Giorgio Napolitano gioca la carta estrema, il mandato all’Avvocatura dello Stato per definire il conflitto con la Procura di Palermo a tutela delle prerogative della più alta carica dello Stato. Un atto, come spiega nel decreto presidenziale, resosi necessario una volta che il procuratore di Palermo, il 6 luglio, in risposta a richiesta di notizie dell’Avvocato dello Stato, aveva assicurato che «avendo già valutato come irrilevante ai fini del procedimento» quelle telefonate non ne prevedeva «alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione».Poi era iniziato uno stillicidio che non poteva essere, agli occhi di Napolitano, ulteriormente tollerato, e il silenzio poteva apparire inerzia. «È dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi - scrive - evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce».Nessuno strappo, sottolineano sul Colle. Semplicemente il Presidente, come è doveroso quando si apre un conflitto fra istituzioni dello Stato, si rivolge all’unico organismo e in grado di dirimerlo: la Corte Costituzionale, suprema garante della Carta. Ben consapevole che la via seguita avrà i suoi tempi - dovendo prima di ogni altra cosa ottenere un giudizio positivo sull’ammissibilità - il Quirinale è però convinto delle sue ragioni. Ricorda l’articolo 90 della Costituzione, che stabilisce che il capo dello Stato «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione», e l’articolo 7 della legge costituzionale 219, del 5 giugno 1989.A determinare la scelta del Colle le ripetute, successive, dichiarazioni da parte della Procura parlemitana, giudicate incoerenti con quell’assicurazione data all’Avvocatura dello Stato di distruggere immediatamente le conversazioni che vedono, per errore, coinvolto il Capo dello Stato. Il decreto cita la nota del procuratore Messineo che tre giorni dopo precisa con puntiglio che si procederà alla «distruzione delle conversazione legittimamente ascoltate e registrate, esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti».Ma lo stillicidio era già iniziato da tempo, tanto da indurre già un mese fa Napolitano a pubblicare integralmente la lettera al Procuratore generale della Corte di Cassazione per raccomandare maggiore coordinamento nelle inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia. Fino a ieri, quando il pm Ingroia replicava sull’<+corsivo>Unità<+tondo> con durezza all’intervento, sullo stesso giornale, di Emanuele Macaluso. Che se la prendeva con lo scrittore ed editorialista del Fatto, Marco Travaglio, il quale - mostrando di conoscere il numero delle intercettazioni che coinvolgono Napolitano - avrebbe dato l’idea di poter accedere anche al loro contenuto: «Il procuratore Messineo può dirci chi informa Travaglio, o "la legge è uguale per tutti" si ferma a Parlemo?», si chiedeva Macaluso, uno dei politici più ascoltati, da sempre, da Napolitano.D’altronde ancora ieri mattina da Palermo erano partite dichiarazione che escludevano ogni volontà di resa. Ecco dunque, la scelta di Napolitano di intervenire, confortato dal segretario Marra e dai consiglieri giuridici Sechi e D’Ambrosio (il consigliere intercettato a colloquio con Mancino) valutando norme e precedenti.. Fra i quali fa spicco quello del febbraio 1997 quando Cossiga andò all’attacco dell’allora Guardasigilli Flick per il caso del presidente Scalfaro intercettato a colloquio con un banchiere, il presidente della Popolare di Novara, giudicandolo una «violazione delle guarentigie delle inviolabilità del Capo dello Stato». Flick convenì che «la procedura seguita non era in linea con i principi della Costituzione». Ma il caso, che coinvolgeva il procuratore di Milano Borrelli, si chiuse senza altri strappi. Stavolta invece sarà la Consulta a decidere. «E gli argomenti che usò Flick sono tuttora validi - è convinto il costituzionalista del Pd, Stefano Ceccanti - Nessuna intercettazione è possibile durante il mandato, se fatta per errore va distrutta senza esitazione».
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